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Tasso di cambio, produttività e declino italiano

Creato il 19 gennaio 2015 da Keynesblog @keynesblog

Tasso di cambio, produttività e declino italiano

Una delle tesi contro l’euro del professor Alberto Bagnai verte sulla correlazione tra il tasso di cambio e la produttività in Italia. L’idea è all’incirca questa: con l’ingresso nell’euro, o meglio con la rivalutazione del 1996, seguita poi dalla fissazione del cambio, l’Italia ha perso competitività, riducendo così il canale della domanda estera. Ora, poiché la legge di Kaldor-Verdoorn-(Smith) sostiene che la crescita della produttività è causata dalla crescita della domanda, questo spiega la stagnazione della produttività dalla metà degli anni ’90.

Per suffragare la sua tesi, Bagnai produce un grafico, che qui riportiamo insieme alla spiegazione dello stesso:

Il fatto stilizzato par excellence dell’economia italiana, negli ultimi venti anni, è questo:

Dec_04

In verde trovate, come sopra, la produttività del lavoro (ALP, average labour productivity). In rosso il tasso di cambio lira/ECU (lire per ECU), che dal 1999 diventa il tasso di cambio irrevocabile con l’euro. Ricordo a beneficio delle eventuali persone dalla limitata capacità di comprensione che questo tasso, cioè quello rispetto agli altri paesi europei, è il più significativo per quanto riguarda l’effettivo “peso” della valuta italiana, dato che le valute che componevano il paniere dell’ECU (e che poi sarebbero di fatto confluite nell’Eurozona) corrispondono ai paesi che esprimono la maggior parte del commercio dell’Italia (paesi europei, perché, guarda caso, si tende a commerciare di più con chi è più vicino…).

Qui il prof. Bagnai usa il tasso di cambio nominale come misura di competitività.

Il nostro test verterà invece sul tasso di cambio (effettivo) reale, ovvero quello corretto per l’inflazione, una misura più accurata della competitività. Perché? Lo spiega il prof. Bagnai nel suo libro, liberamente disponibile qui: http://www.unich.it/docenti/bagnai/mqs/Mqs.pdf (da pagina 117 in poi, enfasi nostre):

6.2.1 Il tasso di cambio reale
Come abbiamo detto, il tasso di cambio è il prezzo relativo di due monete. Se astraiamo dalle transazioni di carattere finanziario e in particolare speculativo (ad esempio, le operazioni di arbitraggio), un agente economico che acquista una valuta estera lo fa per perfezionare degli scambi di beni (cioè delle transazioni reali): ad esempio, un importatore acquista dollari per pagare le materie prime o i prodotti finiti che importa, un turista acquista rupie per finanziare la propria vacanza all’estero (dove acquisterà beni e servizi), ecc. ecc. In tutte queste transazioni sono coinvolti, oltre ai tassi di cambio, anche i prezzi dei beni e dei servizi scambiati. I due elementi (prezzi e tasso di cambio) concorrono nel determinare la convenienza per un operatore economico ad acquistare in un paese piuttosto che in un altro. È quindi utile disporre di una misura del tasso di cambio che tenga conto dell’effetto dei prezzi, o, per dirla in un altro modo, che venga definito come prezzo relativo non fra due valute, ma fra due insiemi di beni. Questa misura è data dal tasso di cambio reale

e proprio il tasso di cambio reale è al centro della gran parte dei ragionamenti del prof. Bagnai sul suo blog:

.. il diverso comportamento delle esportazioni fra Italia e Germania è spiegato interamente dal comportamento del tasso di cambio reale (cioè corretto per l’inflazione). [link]

… quello che conta ai fini della competitività di prezzo di esportazioni e importazioni non è il livello dei prezzi in un determinato paese, ma l’evoluzione del rapporto fra i prezzi di un paese e quelli del suo partner. Questo rapporto si chiama tasso di cambio reale. [link]

Come si muovono dunque il tasso di cambio reale e la produttività in Italia? Lo illustra il grafico seguente:

 reer_produttività 

I dati sul tasso di cambio reale effettivo sono presi dal database compilato dall’Istituto Bruegel su dati OCSE, e sono calcolati basandosi sull’indice dei prezzi e sul tasso di cambio nominale con i 67 maggiori partner commerciali di ciascun paese.

Il fatto stilizzato “par excellence” improvvisamente scompare. Sì, lo ritroviamo post 1996, ma prima di quella data notiamo che altrettanto ampie variazioni del tasso di cambio reale non hanno inciso in modo evidente sul trend della produttività (e non si può stabilire quindi neppure una direzione di causalità).

Per cercare una conferma, proviamo a confrontare anche altre misure del tasso di cambio reale effettivo, come quella basata sul costo del lavoro per unità di prodotto nella manifattura e quella basata sui prezzi nella sola manifattura, il settore più importante delle nostre esportazioni (nel periodo considerato, oltre l’85% sul totale delle merci, dati WTO):

produttitivà-reer

Anche qui abbiamo andamenti discordanti.

Il problema è che nella seconda metà degli anni ’90 in Italia succedono un sacco di cose, non solo la rivalutazione della lira. Attribuire esclusivamente o prevalentemente ad essa l’arresto della crescita della produttività, richiede prove molto più solide della somiglianza tra due serie storiche riferite a un solo paese che peraltro, come abbiamo visto, non trova conferma quando utilizziamo come indicatore di competitività il tasso di cambio reale invece di quello nominale.  

Ciò vuol dire che il tasso di cambio non conta nulla, che l’euro è una buona cosa, che dobbiamo fare come dicono i tedeschi? Per nulla. Vuol dire solo che è il caso di non insistere sull’argomento del tasso di cambio, che rischia facilmente di trasformarsi in una sorta di ossessione flessicambista, contro la quale peraltro il Prof. Bagnai metteva in guardia pochi anni fa


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