Il vero nome di Tatamkhulu Afrika è quello di Mogamed Fu’ad Nosif, nato nel 1920 in Egitto, da padre egiziano e da madre turca.
E non sono molti i particolari della sua vita di cui si possa dire di essere a conoscenza.
E’ stato e rimane, comunque, uno dei maggiori scrittori sudafricani che, purtroppo per noi, in Europa e in Italia, il pubblico non conosce ancora bene.
Un bianco,Tatamkhulu Afrika, che si è sempre sentito e si sentiva “nero” nel cuore e pensava “nero” con la mente.
Fu vicino infatti, negli anni dell’apartheid, all’African National Congress di Nelson Mandela e, come lui, conobbe il carcere duro per parecchi anni.
Undici in tutto, che lui stesso abbia poi raccontato.
Ha scritto e di prosa e di poesia ed è stato uno scrittore pluripremiato.
“Paradiso Amaro”,il suo romanzo più noto, è uscito, che è poco, nell’edizione Playground di Roma, per l’efficace traduzione di Monica Pavani.
Ma non è la prima volta in quanto c’è già stata, anni fa, una precedente proposta dell’editrice “Il Saggiatore”.
Quella di questa volta potrebbe essere magari, proprio grazie ad una lettura resa piacevole da una traduzione accattivante, l’occasione buona per fare davvero conoscenza con l’autore.
La trama è semplice.
Un certo Tom Smith che, durante la seconda guerra mondiale, è stato fatto prigioniero nel Nord-Africa dalle truppe tedesche, che in seguito consegnarono gli stessi prigionieri ai militari italiani, viene trasferito in un campo di concentramento in Europa.
Un giorno, finita da parecchio ormai la guerra, inaspettatamente, egli riceve a casa sua, in Inghilterra, due lettere e un pacco da amici di prigionia di quegli anni.
Questo è sufficiente a riportare in lui nel presente tutta la forte tensione emotiva vissuta di quell’ “allora” e di quell’amicizie molto“particolari”(il triangolo) che, in anni terribili, aveva legato lui, il Tom, con Danny e Douglas, altri due commilitoni inglesi.
E dimostra in particolare, accanto all’irriducibilità della memoria, che fa rivivere tutto nei minimi particolari, la forza straordinaria di quell’eros arcaico, unica modalità per sopravvivere, cui i tre uomini si aggrapparono come può essere il farlo all’unica ancora di salvezza in frangenti inumani come gli anni trascorsi in un campo di concentramento tra indicibili violenze, continue ritorsioni e ripetute minacce di morte.
E quel che è peggio( la cosa è molto sorprendente rispetto a certe leggende metropolitane circolanti) è che queste pratiche erano messe in atto da soldati italiani. Decisamente peggiori, a detta del protagonista,io narrante, dei precedenti militari tedeschi.
Giudizio severo, dunque, sugli italiani e , per altro,senza appello. Nonché riconferma della fine di un mito.
Ossia: italiani, gente pessima.
a cura di Marianna Micheluzzi (Ukundimana)