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Ilcielo è coperto. Nuvole chiare e scure si affollano in una profondità che soloi cieli africani sanno. Questi cieli. Ti fanno perdere e ritrovare.Ti catturano, ti posseggono, ti prendono e lasciano e portano. E ti innamorano.Abbagliano, confondono, risolvono. Ti contengono, ci contengono tutticontemporaneamente anche dove nessuno lo crederebbe possibile. Sotto i cieliafricani, anche lì scende la pioggia. Poi il sole africano asciuga tutto. Anchequelle lacrime invisibili finora nascoste nella fretta. E non c’è velo checeli la loro bellezza. E non te ne rendi conto lì per lì quanto invece te nerendi conto quando da loro sei lontano. Profondi. Popolati di sogni, spiriti,anime, colori, amori, promesse, fughe. Devo ricordarmi che la febbre dainquietudine nel nord del mondo va curata con altri arnesi. Capire qualiimmediatamente. Ci avviciniamo all’Equatore e l’aria si fa umida. O magari èsolo il potere della suggestione. Noi?! Si va a Zanzibar se non l’avessi dettoprima.Stazione di Ifakara. Lapietra miliare dice che mancano 386 km, incalcolabili in termini di ore. In questa stazione il prodotto più in voga sono i ghiacciolifucsia il cui stecco è un bastoncino più secco che dritto. Se non fossi unafifona ipocondriaca, lo mangerei perché ha un colore pazzescamente chimico eppureincredibilmente fashion. Ma non ho il coraggio di pensare, anche in base aquello che ho scritto sopra a proposito dei bagni, a cosa potrebbe significareavere scompensi intestinali.LaTanzania sembra molto più evoluta dello Zambia, almeno in termini diagricoltura. Certo, bisogna ammettere che la terra tanzaniana è migliore dellasabbia che avevamo a Mongu, Western Province zambiana, sulla quale, comunque,un po’ per testardaggine, un po’ per necessità, siamo riusciti a far crescerecarote, broccoli, ravanelli, pomodori, basilico, anche se abbiamo avuto dellegrandi delusioni con i cocomeri e i finocchi. Qualunque sia la ragione di tuttoquesto, certo è che qui si vedono un po’ da tutte le parti, campi coltivati. Eun migliore sfruttamento del suolo e del territorio. Le montagne, le palme,lineamenti diversi del paesaggio e dei volti che incroci. Una volta e basta. Sicambia, oggettivamente, passando il confine. Anche sul treno ormai i kwacha (moneta zambiana) nonsono più ammessi. Ormai le bottiglie di acqua le possiamo pagare solo inscellini tanzaniani. E con gli scellini tanzaniani che ci ha lasciato Danieleprima di partire pagheremo il nostro primo wurstel sul treno. El’ennesima birra.La quarantottesima ora. L'abbiamo celebrata. Abbiamo attraversato il Selus Game reserve,visto tanti fagoceri, impala, carcasse di elefante che ci hanno fatto purepensare di aver visto dei leoni. O magari dei vampiri. L’immaginazione corre,su questo non ci piove. Pure il caldo ci mette del suo. E’ diventato insopportabilmenteappiccicoso e la pelle a contatto con la stoffa sintetica del sacco a pelo amummia fa una reazione vagamente disgustosa. Siamo vicini all’Equatore e quandopotremo contare su un bagno tiepido nell’Oceano Indiano, probabilmente non cilamenteremo più. Alla stazione di Kisaki, dove il treno si è fermato dopopranzo, abbiamo visto nuovi prodotti in vendita sulla testa delle signore che,col portamento di un bersagliere e la grazia cauta di un funambolo, liespongono ai potenziali acquirenti abbassando i prezzi ogni volta che il trenosta per ripartire. Centinaia di donne portavano in testa cesti di noci di coccopiccole e apparentemente deliziose. Sono andata a cambiare le grandi banconotein piccole banconote al vagone ristorante perché le donne equilibriste e venditrici il resto non ce l’hannomai. Cambiati i soldi mi sono affacciata al finestrino del vagone ristorantealla ricerca delle noci di cocco che stavo sognando, ma in quel momento tuttele signore del cocco si erano spostate verso la parte alta del treno, cioèverso la terza classe, ovvero dove ci sono gli acquirenti che danno le più grandisoddisfazioni.Nellaterza classe non ci sono le cuccette, si sta seduti nello scompartimento doveentrano fino a 8 persone. Poi ci sono i viaggiatori in piedi o in transito traun vagone e l’altro. Sono così, a loro agio. Non si danno fastidio a vicenda,anche se sono così vicini che dire che si toccano è dire poco.Ilcontatto fisico in Africa è qualcosa di imprescindibile nei rapporti umani. E’normale, perché è naturale. Come svegliarsi quando esce il sole, camminare sotto la pioggia senzaombrello, come togliersi le scarpe per ballare, come piangere se si è tristi,ridere se si è felici, come trasportare una bombola di gas sulla testa, comefare una domanda se si dubita. Due amici possono andare in giro manonella mano, i conoscenti si abbracciano e ad ogni persona che si incontra sistringe la mano ogni volta che la si incontra, anche se questo significastringere la stessa mano anche sei o sette volte nell’arco della stessagiornata.
Eccoil contatto. Tralascio la parentesi ballo perché il pensare al loro movimentofluido, felino, sensuale, ammiccante, mi crea complessi di inferiorità. Eppuredevo essere forte come quando ho deciso di mettere piede sul treno. E non farefinta di niente. Loro ballano divinamente, ecco. C’è chi balla più divinamentedi qualcun altro, ma la tendenza è quella. Cioè quella di ballare. Ballare colcorpo, col cuore, con l’anima, con il sentimento, con la passione e senzanessuna sovrastruttura che possa limitare l’angolo di ancheggiatura o laprofondità di un affondo verticale. Ci ho provato, io, ad imitarli, ma nonfunzionava. Sì, le danze africani sono piene di sesso, forse proprio per questocosì sentite. Così calde, ipnotiche, inimitabili. Così per noi tabù. Perché ledanze africane non lasciano niente all’immaginazione. Mentre a noi hannoinsegnato che certe cose è bene immaginarle. E in ognicaso è meglio non parlarne.A forza di chiacchierare e perdere il filo del discorso, il treno è ripartito e io, che ero intenta a fare uno studio sociologico in terza classe - dove si mangiano ali di pollo e banane grigliatementre si cambiano pannolini ai bambini sui sedili del treno bevendo coca cola, il tutto contemporaneamente perché sono dei fenomeni - non ho comprato le noci di cocco. E mi sono persa nella coda del treno. La strada la ritrovo, altrimenti non ho alcuna chance nel mondo crudele a nord di dove sono ora. Trauno scherzetto e l’altro siamo a 15 minuti da Dar Es Salaam, dicono. Sono le17:33, sono, cioè, quarantanove ore e trenta minuti che sono in treno, insediata nellacuccetta B2 dello scompartimento C2 della linea Kapiri-Dar. Trapoco si scende. Cioè si cammina sulla terraferma, si guarda il mondo da fermi.Si guarda il mondo da fermo. Ci si dovrà vestire, si berrà la birra solo lasera, non si mangeranno uova sode, si potranno indossare le zeppe, non sivinceranno stipendi a briscola, si andrà al bagno senza timore di scivolare.Non si sentirà l’odore di salvia. Non ci si volterà a guardare quello che è giàpassato. Non si darà ascolto al romanticismo. Iltempo scapperà senza lasciarti il tempo di riflettere che avresti potutoimpiegarlo meglio. Il tempo passerà e non avrai avuto il tempo di scrivere dilui. Sono più bella oggi, più bella di Mary Poppins (mitica). Sono pronta a prenderequel coniglio, superarlo, decidere io dove si va. Sempre che anche stavolta nonresti ad aspettare che il treno riparta senza avermi fatto scendere da qui.
E' il 10.12.2010 e siamo sullavetta del Kilimangiaro. Beh, si fa per dire. Cioè, non a 5.896 metri o quantidiavolo sono (in compenso ieri ero sul tetto dell’albergo più lussuoso di Dares Salaam, cioè il Kilimangiaro Kempiski a bere mojito e a mangiucchiarearachidi bollite e chips appena fritte. Di lì la citazione). Sono sul terzopiano del traghetto che ci porterà a Zanzibar. Il viaggio ci è stato narrato come un continuo conato di vomito. E’ chiaro che nessun racconto può oramai spaventarci. Anzi, noi ci mangiamo sopra. Inun’ora e mezzo saremo a Zanzibar, dopo 50 ore di treno, un brindisi sul tettodel Kilimanjaro Kempiski, una cena all’Oriental e unapuntatina alla roulette. Quasi non mi ricordo più dove èche sto andando. Forse perché ho capito che non conta così tanto quello vienedopo quanto quello che c’è già qui e ora. Mi servivano 50 ore di treno perdiventare un po' saggia.Quandoieri siamo scesi dal treno e la sensazione di vertigine ci ha travolto e ci halasciato senza protezione, potevamo essere vulnerabili. E invece no. Eravamopiù forti di prima. Perché consapevoli della strada fatta.Abbiamo avuto il tempo di capire e di apprezzare il suolo della nostradestinazione. Ora Dar Es Salaam scompare lentamente dalla mia vista, sono inpieno Oceano Indiano. E si comincia a vedere Stone Town. Che poi scoprirò essere una cittadina tra il magico e lo speziato, tra l’Oriente,l’Occidente, il nord, il sud dalla quale mi lascerò incantare. Con i chiodi di garofano, le porteintarsiate, i tinka-tinka e le bellezze celate. Le mandorle, le passion fruit, le nocidi cocco, l'eleganza, l'hennè, gli spiedini di crostacei e i sensi unici.Mapenso che questa sia un’altra storia. Una storia non ancora da raccontare. (Non so dove sia il coniglio. Devo tenerlod’occhio). Zanzibar, com’è?! Banalmente: il paradiso. Sequesto non basta, non resta che salire di nuovo sul treno. Econtinuare a rincorrere i sogni da lì, dove i sogni sono quello che c’è. E non per forza quello che ci sarà. O quello che ti dirò domani.
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