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“Te sigo”

Creato il 02 ottobre 2013 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Tutto il mondo l’ha visto così: gli occhi increduli, tristi, lucidi di lacrime che non si potevano trattenere. Rabbia, delusione, stanchezza. Si può piangere per tanti motivi. Joaquim “Purito” Rodriguez pochi giorni fa piangeva sul Mondiale, quello che poteva essere suo. Purito, lottatore nato, era aggrappato a questo sogno iridato con le unghie e con i denti. Fino alla fine, fino agli ultimi cinquecento metri prima della linea bianca, quando si è voltato e ha visto che, attaccato alla sua ruota, c’era Alberto Rui Costa. Alejandro Valverde, il suo compagno di squadra, era rimasto dietro, impegnato a controllare un Vincenzo Nibali oramai senza speranze di successo.

Piangeva, Purito, e tutti si sono commossi con lui. Perché l’umanità difficilmente si riconosce nei vincitori. Li ammira, forse. Li ama perché vorrebbe essere come loro. Ma la familiarità è nella sconfitta. Quando arriviamo ultimi o subito dopo i primi: è questo che ci ha fatto essere partecipi di quelle lacrime trattenute a fatica, che forse raschiavano in gola, facevano male. Come tutte le cose che abbiamo dentro e non possiamo tirare fuori.

Ma il ciclismo è per i viaggiatori costanti, per quelli che il giorno dopo, bello o brutto, sono altrove. Firenze sembra lontana, questa mattina, a Settimo Milanese, alla partenza della Milano-Torino. Sono passati due giorni dal pomeriggio di pioggia e di sole che non gli ha regalato l’arcobaleno, eppure Joaquim Rodriguez è qui, in questo paese della periferia milanese, pronto a correre ancora. Sa di familiare, questa partenza: gente che passeggia tra i pullman e guarda incuriosita le biciclette, i meccanici, i ciclisti che scendono e poi risalgono. Sembra quasi un ritorno a casa.

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Purito non ha fotografi attorno: è piegato sulla bicicletta, tiene le mani sul manubrio e parla con due bimbi. I suoi bimbi. Gli stessi occhi, la stessa espressione. Sorride, scherza, è sereno. Qualcuno, con in mano la lista dei partenti, gli ricorda del Mondiale: una battuta che lui ascolta appena. Ha orecchie solo per la voce della sua bambina che, mentre gli tocca la ruota della bici, dice: “Te sigo, te sigo!” Ti seguo.
Tutti si mettono a ridere.
Stamattina Joaquim è a casa. E’ l’eroe saldo e sicuro dei suoi piccoli, si lascia prendere le mani, guarda il suo ometto che gli mostra un dentino che dondola.
Stamattina il ciclismo emana la sua stessa aura: serena, intima, umana. Famiglia è qui, dove si sistemano le biciclette prima del via, dove i meccanici controllano che sia tutto a posto e i corridori salutano, sorridono, parlano di tutto. Famiglia è qui, dove ci si ritrova dopo un lungo viaggio, una lunga assenza.

Quel “Te sigo” detto da una vocina piccola non si può dimenticare. E’ una di quelle piccole cose che questo sport porta con sé, una delle sue brevi, profonde, storie. Quel sorriso di Purito insegna che le vittorie o le sconfitte importano poco, la mattina dopo. Contano i sorrisi che trovi quando tutti gli altri se ne sono andati, tornati alla loro quotidianità. Nella vita abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica teneramente “Te sigo” perché sei importante, perché sei il mio eroe. Te sigo o ti aspetto. Significa avere qualcuno che pensa a noi, che ci vuole bene, che ci darà l’allegria dopo cento tempeste. Qualcuno che avrà il coraggio di seguirci nelle scelte che faremo, anche quelle più grandi ma avrà anche la pazienza di aspettarci.
Te sigo o ti aspetto.
Avere qualcuno che le dica, urlandole o sottovoce, conta più di tutte le vittorie del mondo.

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