Svolgimento
Ai viaggi senza ritorno
UKIONA ZAITUNA UJUWE AMBARI IKO NYUMA (Vorrei sapere come sono stati gli anni passati)
La casa dei nonni era una villa con l'unica pretesa di essere solida. Era stata costruita alla fine degli anni ’60 con i soldi ricavati da quella che in famiglia veniva chiamata la campagna d’Africa del nonno, più o meno tre anni che lui diceva di aver passato a coltivare banane che invece avevano coltivato altri. Cioè i neri.Bastava dirgli come fare e quelli alla meglio lo facevano: lui lo raccontava senza nessuna ironia, se qualcuno glielo chiedeva. Che i neri non fossero come loro, questo il nonno alla nipote lo ripeteva spesso. Molti aggettivi per definirli, ma neanche uno che volesse dire qualcosa di buono.Bianca si ricordava bene la prima volta che il nonno aveva affrontato con lei l'argomento. Aveva quattro anni. - Passami l’insalata, cocca... grazie. Ah, sì, anche il pane, per favore. Buona… tenera. Certo che come viene l’insalata qui… E il volto gli si era trasformato per il piacere di quella verdura in bocca, che sempre infilava dentro a grandi forchettate. Pareva un ippopotamo. Pareva un cammello. E la girava e la rigirava tra le fauci. Quasi si trasfigurava per la grande beatitudine che doveva provare. Quel giorno aveva inghiottito il boccone verde tutto contento, si era versato un bicchiere di vino bianco, aveva bevuto, schioccato la lingua contro il palato. Si era pulito il mento unto con il tovagliolo. Poi aveva continuato. - Ah, te l’ho mai detto, bimba, di quando tua nonna in Africa cercava di far capire a quei testoni neri che la margarina li faceva stare male? Macché. Niente. Teste dure. Mica erano cattivi, poi. Solo testoni. I neri.
La storia si ripeteva ogni volta, a Natale e a Pasqua. E ogni giorno durante le vacanze estive. Il rito della libagione portava inevitabilmente il discorso della famiglia Orlandi sul poco comprendonio gastronomico degli africani. Che il nonno socialista, lontano da ogni tentazione razzista, semplicemente chiamava “i neri”. Chissà perché, l’atto del portare il cibo alla bocca - ed era quasi sempre il primo boccone - lo trascinava inevitabilmente alla stupidità degli africani che aveva conosciuto. Ne aveva conosciuti tanti, diceva. Bianca immaginava lunghe file di persone nere davanti al nonno, in qualche modo giudice del loro lavoro, di quello che dovevano mangiare e degli abiti che dovevano indossare. Lui era il capo, laggiù.Ma chi erano, questi neri? Cosa facevano? Mangiavano troppo? Poco? Abbastanza? Perché a tavola i nonni finivano sempre per parlare di loro, che erano così lontani? Cosa c'entravano, con il cibo? Bianca guardava il fondo del piatto per cercare una risposta. Ma una risposta non c’era mai. Perciò si stufava e pensava ad altro.- Scusa, nonno, ma… la margarina… in Africa? - aveva azzardato Bianca quando aveva circa dodici anni, un giorno che faceva caldo e il burro diventava morbido anche nel loro frigo italiano. E in Africa, allora? Come poteva starci? Il dubbio in quel momento aveva scavato una tana nella mente veloce della bambina. Che se tanto mi dà tanto, mi devi aver sparato di quelle grosse balle, nonno: quello significava, la domanda impertinente di Bianca. Lo aveva perciò guardato con occhio inquieto. - Come ci poteva stare, la margarina, in Africa?… - Figliola - aveva detto nonno Teo abbassandosi sulla punta del naso gli occhiali da lettura per inquadrare meglio quel sangue forse non del tutto suo - la margarina in Africa non ci stava. Ce la portavano gli aiuti internazionali. Gli americani la paracadutavano insieme a cioccolata, lame da barba e altri generi di prima necessità. Per il loro bene, insomma. I neri quindi la raccoglievano... Poi aveva sospirato con fare comico: - che magari gli avrebbe fatto anche bene, qualche caloria in più… ma mica se la dovevano mangiare in quel modo... Eh sì, noi pure glielo dicevamo: lasciate stare, lasciate stare. Ma quelli mica capivano. Anche con le mani, a bocca piena, con il grasso che gli colava giù per il collo e la lingua impastata che quasi si strozzavano e non riuscivano più a deglutire … un bello schifo, credi a me.Aveva concluso con un’espressione disgustata. Il suo silenzio offeso però era durato poco.- E poi!… dopo la facevano dappertutto. Dietro casa nostra, vicino al pollaio, dietro i banani, se andava bene, che almeno così li concimavano. Oppure dov’erano erano. Certe coliche che neanche te lo immagini. Dovevi sentire come si lamentavano, quei testoni! E come puzzavano… un po’ come le bestie... hai presente i maiali?A quel punto la nonna aveva sospirato imbarazzata dandogli un’occhiata di traverso, e lui allora aveva continuato con aria fintamente dispiaciuta. Si vedeva benissimo che gli piaceva, quella cosa.- Se non mi credi, chiedilo a tua nonna.Lei già faceva di sì con la testa, annuiva e guardava giù, verso il maledetto filo di cotone dell’uncinetto, che non voleva saperne di stare dritto. Le mani forse le sudavano, con quel caldo. Tremavano pure un po’.- Diglielo, dai, Angela - Aveva insistito lui. Bianca aveva fatto in tempo a scorgergli un mezzo sorriso all’angolo della bocca, a Teo. Come certi giocatori di poker nei film western. Sarà stata l’abitudine allo stecchino di lato, forse, che ogni vota a fine pasto si metteva in bocca. Invece no, era una smorfia mascherata da sorriso. Una piega cattiva.La nonna aveva confermato con voce sottile. Non sembrava lei. Pareva lo spiffero del vento tra i buchi delle tapparelle abbassate.- E’ vero - aveva detto - puzzavano ed erano teste dure. Ora però basta, Teo.E tra loro era sceso un silenzio freddo. Capitava, ogni tanto. Bianca non sopportava quell’imbarazzo, usciva.
Roberta Lepri
DEDICA ALLA MAESTRA
La mia vita è cambiata il primo giorno in cui ti ho conosciuto, quando sul tabellone con la bacchetta mi indicavi le lettere e accanto a ognuna c'era un disegno. E' stata la scoperta più grande di tutte. Cara Maestra, tutto quello che mi è successo da lì in poi è soprattutto merito tuo, e ritrovarti ogni giorno sul blog è una grandissima felicità.