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TemperaNapoli, Carlotta Susca

Creato il 12 febbraio 2013 da Temperamente

TemperaNapoli, Carlotta SuscaL’8 febbraio presso la Libreria Ubik Napoli, all’interno della rassegna ”Temperanapoli”, ho intervistato Carlotta Susca, autrice di David Foster Wallace nella Casa Stregata. Ecco cosa ci siamo detti…

“David Foster Wallace nella Casa Stregata” è un titolo che fa pensare subito a Perso nella casa stregata di John Barth, e infatti, nel tuo saggio, spieghi che Wallace imputava a Barth di non perdersi realmente nel testo, ma di restarne fuori, di mantenere una certa distanza da esso e di controllarlo come un deus ex machina. Ecco allora che nel caso di Wallace la “Casa Stregata” diventa metafora della mente dello scrittore che si perde nei meandri della narrazione. Ma in che modo, ti chiedo, Wallace si disperde nelle sue stesse opere?

Il riferimento a Barth è voluto e dovuto: c’è un legame diretto fra l’autore dell’Opera galleggiante e Wallace. Il taglio interpretativo che ho dato al rapporto fra i due scrittori è quello che riassumi tu: il narratore di Barth in Perso nella casa stregata sembra smarrirsi, e confonde il lettore. Sembra che si perda l’autore, anche, che non riesca a far fronte alla storia che sta scrivendo, che la narrazione gli sfugga di mano, ma al di là di tutte le istanze narrative io credo che Barth sia pienamente in grado di controllare i suoi personaggi e che metta in scena lo smarrimento tenendo ben saldo il controllo. (Per inciso: io trovo Barth uno scrittore grandioso, e la confusione che crea nel lettore è piacevolissima e stimolante). Anche Wallace è padrone di tutte le persone che frappone fra il sé in carne e ossa e il lettore (tutti i personaggi, i narratori a vari livelli, i David Wallace che se ne vanno a passeggio nel Re Pallido e in Caro vecchio neon), ma io credo che come essere umano sia (fosse) molo più coinvolto di Barth nei paradossi e nei doppi legami delle sue storie. Di qui il senso di fortissima empatia che i lettori provano nei suoi confronti. Questo per riassumere (malamente).

Il tuo saggio parte dagli equivoci di fondo che hanno contraddistinto i recenti dibattiti sul Postmoderno. In particolare, secondo il Nuovo Realismo viviamo nell’epoca della inemendabilità della realtà, sicché il Postmoderno, avendo perso i contatti con la realtà, non appartiene più alla nostra epoca ed è quindi morto e sepolto. La tua obiezione è che, a ben vedere, non solo il Postmoderno è vivo e vegeto, ma porta avanti proprio quei valori (sincerità, autenticità) del realismo tradizionale. Wallace è dunque da considerarsi un “postmoderno realista”? 

In Verso occidente Wallace fa dire a Mark che non importa quali definizioni vengano date ai testi letterari, né in quale corrente vengano inseriti: quello che vuole è scrivere qualcosa «che dia una fitta» (anche Giacopini, in una intervista che riporto nel libro, ha la stessa posizione). L’individuazione di correnti letterarie serve a critici e lettori per orientarsi (soprattutto ai lettori, credo, in modo da non perdersi nella Casa Stregata della letteratura e sapere cosa preferiscono, salvo poi farsi stupire da libri che non pensavano di poter apprezzare). Al di là delle etichette, se per ‘Realismo’ intendiamo qualcosa che ci parli di ciò che ci interessa in quanto esseri umani, diamine, se Wallace è realista! Solo che il mondo di oggi, come dice lui, non è lo stesso in cui viveva Tolstoj, né il modo di descriverlo può essere lo stesso. Come eliminare la tv dalla realtà? Come non dare per scontato che ci influenzi? Ho da poco guardato la prima puntata di una serie tv in cui James Van der Beek interpreta se stesso, e tutti gli altri personaggi gli dicono di ricordarlo in tv quando ha interpretato Dawson, ma l’altra protagonista è a sua volta comparsa in molti altri telefilm, fra cui Veronica Mars e Una mamma per amica, mentre nella sit com non se ne fa cenno. Questo merita attenzione: viviamo contemporaneamente in diversi livelli di realtà, quindi non è così scontato capire quale sia il modo più realistico di raccontare. (Altro esempio: Amazing Spiderman attualizza la storia dell’Uomo Ragno: la tecnologia presente nel film lo colloca inevitabilmente ai giorni nostri, ma evidentemente Peter Parker non ha mai letto i fumetti dell’Uomo Ragno, che nella sua realtà non esistono, altrimenti vivrebbe un paradosso e ne sarebbe consapevole. Trovo tutto questo molto affascinante).

Il filosofo Giorgio Agamben ha scritto che per comprendere il proprio tempo bisogna porsi in un’ottica sfalsata rispetto ad esso. Cito questa frase perché, come ha dichiarato Vittorio Giacopini nell’intervista che hai menzionato, la capacità di descrivere il reale è presente in tutti quei narratori che riescono a porsi, appunto, su un piano sfalsato. Tu aggiungi che Wallace sia tra questi e che, parafrasando David Shields, riesca “a raccontare la verità di sguincio”. Puoi chiarirci questo concetto?

In uno dei libricini che sta pubblicando Mimesis, Antonio Caronia ha scritto che il compito della fantascienza è quello di rendere letterali le metafore: questo è un esempio di come la realtà si possa raccontare «di sguincio». È sempre in Verso occidente che Wallace spiega come per centrare l’obiettivo con una freccia bisogna puntare più a lato del centro: credo che in letteratura l’esagerazione dei dettagli sia necessaria per descrivere in maniera ‘realistica’, così come a teatro le attrici devono truccarsi gli occhi in maniera esagerata perché da lontano si vedano come se fossero normali. In letteratura credo che questo si ottenga selezionando le porzioni del reale più significative, in modo da avere un concentrato di realtà per evidenziare meglio il modo in cui quella stessa realtà esiste, seppur diluita, nel ‘mondo vero’. In Infinite jest gli anni sono sponsorizzati, il paesaggio violentato, molti corpi deformi, l’Intrattenimento è una minaccia concreta: si tratta di metafore rese letterali, e questo ci dice moltissimo del nostro tempo.

Il tuo saggio non è solo una monografia su Wallace, ma una riflessione sul compito della letteratura, della narrativa contemporanea e della scrittura al tempo della televisione e di Internet. Più in dettaglio, sostieni che il libro è in concorrenza con le narrazioni per immagini provenienti dalla tv e con i “testi-con-link-di-riferimento” provenienti dal web. Cosa resta dunque al libro per sopravvivere al confronto coi suoi concorrenti?

Io credo che il periodo in cui viviamo sia simile a quello della creazione della stampa a caratteri mobili: si demonizzavano i testi prodotti con questo sistema e si tentava di farli somigliare ai testi miniati; così gli eBook e le webzine oggi sono molto simili ai testi di carta e alle riviste tradizionali. Ma la possibilità di inserire link, contenuti aggiuntivi e una miriade di altre cose (la realtà aumentata, per esempio) renderà le pubblicazioni virtuali molto diverse da quelle ormai tradizionali. Il libro di carta potrebbe scomparire (non che me lo auguri, ma è possibile). Al momento, però il problema principale dei libri è dover emergere in libreria e comunque di spiccare fra gli altri, di far desiderare al lettore di averli, e quindi credo che debbano essere belli. Diamo per scontato che debbano essere utili, ben scritti, senza errori; fatto ciò credo che si possa giocare con copertina e impaginazione, immagini, font, note… ma il discorso è complesso perché per la saggistica è più difficile avere un aspetto pop, né tutta la narrativa si presta a impaginazioni creative – e non tutti gli scrittori accettano che il loro libro non sia come gli altri. Ci tengo a sottolineare che questo è un parere personalissimo e non una ricetta. Ribadisco, il problema è molto complesso, ma se anche il testo cartaceo dovesse scomparire, ciò che conta è che ogni libro abbia un senso, un motivo per esistere. Sarebbe bello se fosse così.

 

TemperaNapoli, Carlotta Susca


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