Non so bene come mi ritrovai dentro questa avventura paradossale e grottesca, ma so per certo che da quella notte capii perfettamente il nesso che corre tra un’idea assurda e la sua possibile realizzazione.
Mi ero persa. Maledizione, mi ero persa davvero! E più andavo avanti e più il bosco si faceva fitto e tenebroso. Tra non molto sarebbe stato tutto buio. Che storia, quella di andare a vedere l’eclissi di luna! E da sola per giunta, perchè dovevo integrarmi con l’essere intrinseco della natura celeste, diventarne parte attiva, completarmi con la sua filosofica essenza, e non so quante altre stronzate che avevo letto in quel libro! Della Radura delle Querce, alla fine di un sentiero in mezzo al bosco a cinque minuti dal rifugio, da dove si sarebbe vista un’eclissi pazzesca, nessuna traccia. Camminavo così alla cieca, facendo finta di ricordare di aver già visto quell’albero o quel cespuglio, tanto per rincuorarmi un po’, cercando di poter in qualche modo tornare al rifugio, ed invece niente, più andavo avanti e più ogni traccia verde intorno a me era uguale a sè stessa. Già mi vedevo azzannata da un orso o braccata da un lupo, oppure stuprata da un maniaco di passaggio, chi avrebbe mai potuto ritrovarmi lì, morta o viva che fossi? A nessuno avevo raccontato della mia bravata: mia madre sapeva che ero fuori per un fine settimana con un’amica, poche domande da parte sua come sempre, pochi dettagli da parte mia. E Matteo sapeva che avevo bisogno di stare un po’ per conto mio. Quelle frasi del tipo “ho bisogno di recuperare i miei spazi” in un uomo fanno sempre effetto, solo con il mio fidanzato e con il suo proverbiale savoir faire sempre poco sussurrato, sono sempre state deleterie. Infatti, di tutta risposta mi sono beccata un “ragazzi che fisse! Fa’ un po’ come ti pare”. Detto e fatto. E guarda ora dove mi ritrovavo, grazie alle mie fisse!
Nemmeno due ore prima si prospettava una bella serata, normale, forse solo un po’ troppo fresca per essere fine settembre, diciamo una serata bizzaramente normale. E poi c’era quell’eclissi che aspettavo da tanto! Comunque cercai di non perdermi d’animo, guardavo il cellulare continuamente sperando di trovare campo, e camminavo, camminavo e camminavo. Avevo le gambe a pezzi e il freddo cominciava a farsi sentire, cosa avrei potuto fare? Il mio sangue freddo cominciò a farsi tiepido e si tramutò piano in apprensione mista ad ansia per lasciare, in breve tempo, spazio al panico vero e proprio. Era ormai troppo tempo che vagavo. Quanto dura un’eclissi? Non lo sapevo. Inziò a piovere. Mi fermai e mi riparai sotto una specie di fitto cespuglio, sembrava non piovesse lì sotto, così tolsi lo zaino dalle spalle, posai il cellulare, mi sedetti in terra e, rannicchiata, avvolsi le braccia intorno alle mie gambe piegate, la testa chinata sulle ginocchia, chiusi gli occhi aspettando il fulmine che mi avrebbe folgorato dicendo addio all’eclissi di luna.
“Cosa fai lì? Sai che non ci si ripara sotto gli alberi durante un temporale?” Dovevo essermi addormentata. Alzai il viso con una calma insolita. Non era un orso o un lupo nè tanto meno un maniaco. Una donna, era lì davanti a me, accucciata vicino. “Dai vieni a ripararti sotto il mio tepee”. Mi sollevò, praticamente tirandomi su per il braccio, e mi fece segno di seguirla. Non sapevo cosa fosse un tepee ma, non avendo molta scelta in quel momento, la seguii. Lì a due passi da noi c’era una tenda, che supposi fosse il misterioso tepee, da cui usciva una striscia di fumo che disegnava nell’aria umida una sorta di spirale. Come non avevo potuto vederla prima in tutto il mio girovagare? Entrai dopo di lei. “Vieni, siediti qui e riscaldati accanto al fuoco”. Come un automa feci come mi disse. “Allora, io sono Angwusnasomtaqa, ma va bene anche solo Anu, e tu?” Per la prima volta emisi un suono “Io sono Kiara. Con la kappa” dissi senza riflettere, come sempre in genere mi presentavo.
“Senti, Kiaraconlakappa, ti va se ti scaldo una minestra? Non è che abbia molto da offrirti ma, secondo me, con questo freddo è l’ideale” Mi guardai intorno. Mi trovavo seduta per terra al centro di una piccola tenda circolare di quelle che finiscono a punta in alto con un piccolo foro. Era fatta di pelli marroni e nere e teli un po’ più chiari alternati che poggiavano su delle pertiche. Al centro c’era acceso un fuoco dove, appesa ad un gancio, c’era una specie di pentola in cui, dedussi, si stesse riscaldando la mia minestra. Un filo di fumo saliva rapidamente nell’apertura in alto. Il mobilio era praticamente inesistente. Poi, solo allora, guardai la donna. Era vecchia, di un’età indecifrabile, così piena di rughe nel viso da sembrare fatto di cartapesta. Gli occhi, due minuscole fessure, erano intagliati nella pelle scura, leggermente in su, e la bocca era scavata in un sorriso perenne con un dente quà e uno là. Indosso aveva una specie di tunica, di sacco direi, in pelle decorata con disegni strani. Uscendo dal mio torpore chiesi: “Come hai detto che ti chiami?”
“Anu”
“No, hai detto una cosa impronunciabile prima”
“Angwusnasomtaqa. Significa corvo-madre-spirito. Si, è vero, è impronunciabile, ma non solo per te. Del resto quando mia madre mi partorì nella radura c’era sempre questo corvo che girava sulla sua testa, quindi non potevo che chiamarmi così, e poi ero la primogenita, in qualche modo dovevo essere una madre spirito per la mia discendenza. Tieni, mangia vedrai che ti farà bene” mi disse porgendomi una ciotola malconcia e sbeccata con la promessa minestra. Un grosso bisonte raffigurato su un lato non prometteva niente di buono. Girai la scodella dall’altra parte e, ringraziando con un cenno, iniziai a mangiare, cioè a bere, visto che mi servì la minestra senza un cucchiaio ma non osai chiedere niente. Era inaspettatamente deliziosa. Fuori, sentivo dal ticchettio sulla tenda, continuava a piovere.
“Senti Anu, io ti ringrazio per tutto ma….c’è qualcosa che mi sfugge…”
“Sei qui per l’eclissi di luna vero? Anche tu sei una di quelli che ha tentato di arrivare alla Radura delle Querce?”
La Radura delle Querce? Allora esisteva!
“Quei pochi giornali che ne hanno parlato hanno dato un’indicazione sbagliata, e così ho potuto gustarmi l’eclissi senza orde di gente intorno”
Certo i giornali! -Seguire un sentiero in mezzo al bosco a cinque minuti dal rifugio- …bastardi.
“Tu devi esserti persa”
Non lo sapevo più nemmeno io e tanto meno sapevo cosa mi stesse capitando.
“Hai un bel nome. Posso kiamarti solo Kappa?”
Ma chi era quella donna? Cercai di rispondere.
“No, veramente mi chiamo Kiara, è solo che si scrive con la kappa” dissi restituendo la ciotola vuota.
“Ah, scusa. Ne vuoi ancora?”
Tornai ad ingozzarmi di minestra, nemmeno fosse una lasagna fumante “Anu. Ma tu chi sei?”
“Sono solo una nativa americana, un’indiana come si usa dire da voi, una cheyenne per l’esattezza”
Un’indiana? Vecchia e sola? In Italia? Di notte? In una tenda? In montagna?
Doveva essermi sfuggito molto più di un qualcosa.
“L’eclissi lunare” continuò “serve a chiarire alcuni miti delle culture primitive. Sai come si spiega il fenomeno? Si crede che un animale o un essere mitico tenti di divorare la luna e così i popoli, per allontanare questa minaccia, reagiscono provocando rumori con qualunque cosa gli capiti a tiro. Kiara mi ascolti?”
Si, credo che la stessi ascoltando, o forse no, ma le feci comunque cenno di si con la testa.
“Ma dai, basta parlare di me. Dimmi invece qualcosa di te”
Ero stordita e persa dentro gli occhi e i pensieri di quella vecchia. Però risposi.
“Di me? Non c’è molto da dire. Sono una persona così normale che non mi viene in mente niente da dire…che ne so…ho 27 anni, vivo ancora a casa con mia madre, sono fidanzata con un cretino, lavoricchio, poi…boh e poi basta” Poggiai la scodella, vuota come me, accanto ai miei piedi e la lasciai lì. La vecchia si alzò per attizzare il fuoco con qualche pezzo di legna ed intanto canticchiava a bassa voce una canzone. Il fumo riprese a fare le sue spirali verso l’alto. I suoi modi erano così ben distribuiti da far diventare un movimento meccanico e banale, come quello di ravvivare il fuoco, una sorta di cerimonia sacra, un rito fatto di danza e musica. Si risedette davanti a me.
“Cosa stai cercando Kiara?”
Come? E ora che c’entrava. “Scusa?”
“Sai, dovresti fare come fanno i giovani indiani che si ritirano da soli nella foresta per chiedere il favore degli Spiriti, e aspettano e aspettano e aspettano, tra sogni e visioni, una risposta. Tu Kiara fai troppo caso alla sostanza. Cerca piuttosto di dare spazio ai contorni. Non è trovando delle risposte oggi che ti servirà capire perchè sei finita qui. Così ti annulleresti e finiresti per amare e dare valore a quello che trovi, senza invece andare alla ricerca, seppur infinita, delle molteplici verità. Dai anima ai tuoi sensi, ricerca incessantemente, e sentirai lo Spirito entrare dentro di te. Questo è solo un modo per trovare quello che cerchi”.
Parole sensa senso che andavano e venivano. Non so bene cosa c’entrasse in quel momento, ma mi venne in mente Matteo che una volta mi disse “se con me vuoi l’esclusiva, mi perdi”. Com’è che aveva detto la vecchia? Si, era così, avevo finito per amare quello che avevo trovato. Ed io avevo trovato Matteo. Anche se forse con l’amore lui non c’entrava poi tanto. In un micro secondo risbattei Matteo ai margini dei miei pensieri e tornai a alla vecchia.
“Voi avete sempre creduto che la storia, per essere raccontata, registrata e quindi tramandata, debba essere necessariamente scritta. Ed invece la trasmissione orale non è meno fedele delle parole scritte su carta. La parola, per noi Cheyenne ma, direi, per gli Indiani tutti, è sacra. Gli Sciamani ne sono i custodi e i responsabili, come se fossero vere enciclopedie viventi, che tramandano i ricordi ancestrali attraverso la parola e li lasciano, per così dire, in eredità a chi inizia i passi dove finiscono i loro, come si dice da noi. La parola è energia che incontra altra energia e non può essere rinchiusa ed inscatolata nella rigidità e assurdità di regole o strumenti. Quindi no, Kiara, le mie non sono parole senza senso “
No, non era possibile, come aveva fatto? Io non avevo espresso quel concetto ad alta voce! Ne ero sicura! Si, il fatto che fossero parole senza senso. Aveva letto nei miei pensieri! Cominciai ad aver paura, mi sentivo tremare dalla testa ai piedi, non sapevo cosa fare, cosa pensare, cosa dire. Volevo andare via ed invece mi sentivo incollata lì per terra. Provai a chiudere gli occhi.
“Kiara! Kiara! Svegliati!”
Cosa voleva ancora da me quella vecchia? Troppe parole, troppe sentenze. La mia vita era ancorata a quello che conoscevo e non ero pronta per stravolgerla, e forse nemmeno lo volevo.
“Kiara, su andiamo alzati, ma non vedi come piove?”
Aprii gli occhi.
Matteo e mia madre.
Matteo e mia madre?!?
Riuscivo a male pena a vedere le loro facce stravolte, le bocche che muovevano le labbra per formare frasi il cui suono mi arrivava a tratti, le braccia che si muovevano in modo discontinuo gesticolando chissà che. Ogni cosa sembrava al rallentatore. Distolsi per un momento gli occhi da loro e mi accorsi che mi trovavo seduta in terra sotto un cespuglio.
“Non eri da una tua amica, come mi avevi detto! Alla tua età, ancora a raccontarmi bugie come fossi una ragazzina di 15 anni! Ma non hai niente da dire? Dai, cerca di muoverti adesso! Se non fosse stato per Matteo non ti avremmo mai trovato! “
Questa doveva essere la voce di mia madre.
“La prossima volta che hai intenzione di andare a fare l’eremita avvisami, così almeno lo so e non impazzisco per venirti a cercare! Forza andiamo ora, prendi le tue cose lì e andiamo!”
Eh si, questo doveva essere Matteo.
Non capivo niente ma non feci nulla per cercare di capire, e così, disorientata e muta, mi alzai. Continuando ad inveire suppongo contro di me, li vidi incamminarsi verso non so bene dove. Non sprizzavo esattamente gioia da tutti i miei innumerevoli pori e non riuscivo nemmeno ad emettere alcuna parola, fosse stato anche un solo semplice grazie. Così raccolsi il mio zaino e mi avviai dietro di loro. Dopo pochi passi mi accorsi che il cellulare mancava all’appello. Tornai rapidamente un attimo indietro senza avvisarli. Doveva essere rimasto lì a terra. E infatti era lì. Lo presi e sotto una pioggia battente, di corsa feci per incamminarmi nuovamente, quando inciampai in una cosa che un altro po’ mi fece cadere. Trattenni a malapena una imprecazione, tanto per non farmi sentire. Mi girai meccanicamente per vedere cosa fosse e la vidi. Paralizzata la raccolsi. La ciotola. La ciotola sbeccata con il bisonte disegnato. Avevo rimosso tutto. Mia madre e Matteo avevano cancellato tutto. Anche l’idea che la tenda, la vecchia, la minestra potessero trattarsi di un sogno. “Tu fai troppo caso alla sostanza. Cerca piuttosto di dare spazio ai contorni” Le parole della vecchia risuonarono improvvisamente nella mia testa con una prepotenza inaspettata. Forse avevo avuto una visione, come i giovani indiani. E allora la ciotola nelle mie mani ? Cosa ci faceva? Forse era lì già da prima che mi addormentassi? Davanti a me li vedevo ancora che camminavano verso valle, i miei… salvatori. Non si erano nemmeno girati per vedere se ci fossi. Sono certa che mi volevano bene a modo loro. Ma erano loro la sostanza. Con una risolutezza fino ad allora sconosciuta, completamente fradicia, girai loro le spalle. Prima o poi li avrei avvisati. In lontananza un filo di fumo a spirale, probabilmente, non lo so. Forse i contorni erano lì e così mi incamminai, sotto un forte temporale.