"Buon pomeriggio Asidor, come ti senti oggi?"
Il giovane uomo, avrà di poco superato la trentina, sbatte un paio di volte le palpebre sporgenti e sorride: "Meglio, dottoressa Tsuguhara. Il mal di testa è passato, e questa notte non ho avuto incubi".
"Ma che splendida notizia. Allora ti va di parlare un po' con me?"
È un suono di gola, quasi impercettibile, accompagnato da un cenno del capo e una lieve scrollata di spalle: "Cosa vuole sapere?"
"Durante il nostro ultimo incontro, mi stavi raccontando della tua adolescenza, quando hai cominciato a isolarti perché, a tuo dire, non riuscivi a legare con gli altri tuoi coetanei".
Annuisce di nuovo, la voce calma: "Esatto".
"Puoi descrivermi qualche dettaglio in più? Non so, i tuoi pensieri, le tue sensazioni nei loro confronti? Se hai mai pensato di rivolgerti a un adulto per confidarti. Ne hai mai parlato con i tuoi genitori? Con un insegnante, magari?"
I tratti di Asidor, fino a quel momento rilassati in un'apparente, serena impassibilità, si contraggono: lo sguardo si oscura; la fronte si corruga; le labbra si stringono in una linea orizzontale che inizia a tremare per lo sforzo; quando inizia a parlare, il tono della voce oscilla, in un alternarsi di raspate rauche e picchi di acuto falsetto.
"All'inizio pensai di essere muto; che non mi sentissero. Io parlavo e parlavo, ma loro niente, non rispondevano. Quando ululavo però, quando tiravo indietro la testa e sguinzagliavo per strada i miei ferali richiami vocalici, le loro teste si voltavano; posavano gli occhi su di me e, con mal celato disappunto, si allontanavano affrettando il passo; come se avessero avuto a che fare con un pazzo in libertà. No, non era la voce il mio problema. Forse erano le parole. Sarò stato un ragazzotto vacuo? Un buono a nulla incapace di parlare d'altro se non di bagatelle e futilità. Ammorbavo il mio prossimo con una caterva di inutili sciocchezze? Passai molto tempo in biblioteca, a leggere qualsiasi genere di libro: manuali di retorica, trattati, letteratura, biografie; i brani che più mi affascinavano, li imparavo a memoria, così da poter fare bella impressione presso il mio esigente auditorium. Come può ben immaginare, dottoressa Tsuguhara, tutta quella dedizione non portò a grandi risultati: continuai a essere invisibile, inascoltato; nei momenti peggiori riuscivo a mettere in dubbio la mia stessa esistenza".
"Ma poi ci fu un cambiamento".
La bocca di Asidor ritorna a sorridere, mostrando una teoria di bianchissimi denti triangolari, limati ad imitare quelli dei predatori di profondità: "Sì. Con Rika tutto cambiò. Fu lei a insegnarmi cosa dovevo fare".
"Puoi parlarmi di lei? E degli altri, se ti va".
"Rika, Gerrol, Auguste e Beliza. Li ribattezzai il Coro Greco. Li incontrai in momenti diversi della mia vita di studente universitario e non si conobbero mai tra di loro, se non nella fase finale. Grazie a Rika, capii che il problema non ero io, bensì gli altri: la soglia di attenzione dell'uomo medio è troppo bassa affinché possa ottenere da esso un livello soddisfacente di comunicazione; per questo inventai la poltrona. Grazie ad essa, le mie conversazioni divennero in breve tempo molto più appaganti".
"Descrivimi questa poltrona, di cui parli così spesso".
"Si tratta di una procedura articolata; ma quando si padroneggiano le operazioni salienti, diventa tutto molto più rapido: in sostanza si tratta di asportare per via chirurgica tutte le parti anatomiche che possano risultare una distrazione: gambe, braccia, occhi. Durante i primi esperimenti conservavo la lingua; ma evitare inutili urla e la possibilità di risposte mediante cenni del capo mi hanno fatto in seguito cambiare idea. Una volta completata la preparazione, non resta che assicurare il soggetto a un sostegno permanente, appunto la poltrona: io usavo chiodi da ortopedico per le sezioni muscolari principali e filo da sutura in seta per le rifiniture epidermiche. Questo, si capisce, fino a quando la polizia non mi ha scoperto e rinchiuso nel vostro istituto per criminali psicopatici. Il mio amato Coro, mi manca così tanto; senza di loro, non riesco a dormire".
"Insomma, Asidor, quante volte te lo devo spiegare? Nessuno ti considera un sadico fuori di testa e tanto meno il tuo ricovero presso la nostra struttura ha mai avuto a che fare con le forze dell'ordine. Ti trovi qui per volontà del tuo tutore legale, perché il mese scorso sei scomparso all'improvviso, alienandoti dalla realtà per due settimane: ti hanno trovato disidratato, in avanzato stato di inedia, a recitare frasi senza senso rivolgendoti a quattro manichini incollati sulle sedie del soggiorno. Hai usato delle parrucche e disegnato i tratti somatici con un pennarello. Capisci cosa sto dicendo? Hai dato loro dei nomi e ti sei creato quattro amici immaginari".
"Posso fare una domanda?"
"Parli pure, dottoressa Sandri".
La giovane tirocinante abbassa lo sguardo, per dare un'ultima, fugace occhiata agli appunti: "Il paziente fa riferimento al mese scorso, ma dalla cartella si evince che sia ricoverato in questo reparto da almeno quindici anni. Non capisco".
Il primario si mette a posto gli occhiali, una spessa montatura nera con grandi lenti a goccia, e annuisce con la testa: "Lei è stata trasferita di recente, vero? Si vede che non le hanno fornito tutte le informazioni su questo caso: è dall'età di diciotto anni che 222-503 è incapace di ricevere alcun tipo di stimolo umano esterno; interagisce alla perfezione con gli oggetti, ma non è in grado né di percepire, né tanto meno di comunicare con le altre persone che lo circondano. Col passare degli anni, la patologia è diventata un complesso enigma di scatole cinesi: come può sentire, la parte ancora razionale nella sua testa sta cercando di auto-analizzarsi, per trovare una cura; ma ciò non fa altro che generare ulteriori personaggi e situazioni da gioco di ruolo che aggravano ancora di più uno stato mentale già molto instabile. Persino il nome che utilizza, Asidor, non è reale: tra colleghi ci riferiamo a lui con la matricola del file perché, ad oggi, nessuno è riuscito a trovare alcuna informazione sulla sua vera identità".
"Quindi è per questo che parla alla propria mano? La usa come surrogato fisico per colmare una distorsione cognitiva? Ma come fa a immedesimarsi tanto? Nel momento in cui la muove, non dovrebbe riconoscerla come parte di sé?"
Il docente si avvicina con calma al vetro-specchio, attraverso il quale la classe sta osservando il monologo nella stanza del malato: "Immagino che dalla sua posizione la visuale non sia delle migliori. Prego, si avvicini".
Titubante, la dottoressa Sandri fa un passo avanti, fermandosi a pochi centimetri dalla parete.
"Deve sapere" prosegue il primario "che oltre alla malattia mentale, 222-503 è affetto da CIPA, insensibilità congenita al dolore con anidrosi: non suda, non sente il freddo o il calore; quando gli capita un incidente, non si accorge nemmeno di essere ferito. Per questo lo teniamo rinchiuso in una camera imbottita; per garantire la sua stessa incolumità. Ciò che ci ha colpito, nel corso degli anni, è stato come il paziente ha fatto uso di questa sua peculiare condizione".
Il medico batte un paio di volte la nocca dell'indice contro sottile muro.
Subito consapevole di un rumore estraneo, Asidor, o meglio 222-503, solleva di scatto la testa, saltando contro la superficie semitrasparente.
Toc, toc. "Ehilà! C'è nessuno?"
"O mio dio!" esclama terrorizzata la tirocinante, dinanzi allo spettacolo al quale stanno assistendo i suoi occhi: le mani, appoggiate aperte contro il vetro a specchio, presentano palmi deturpati in modo orrendo; una rete di tagli, buchi nella carne e una massa di spesso tessuto cicatriziale che, scavato con le unghie, è stato modellato, preciso come un cammeo in madreperla, sulle sembianze di una giovane donna dai tratti orientali.
La dottoressa Tsuguhara.
"Rika? Rika sei tu? Ti prego, parlami bimba".