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Terra Santa. Padre Corbo, l’archeologo che cercava Gesù.

Da Paolotritto @paolo_tritto
Terra Santa. Padre Corbo, l’archeologo che cercava Gesù.

Sono iniziati il 4 ottobre scorso, festività di san Francesco d’Assisi, i lavori per l’edificazione del Terra Sancta Museum di Gerusalemme. Sarà il primo museo al mondo sull’origine del cristianesimo e sarà visitabile sulla stessa “terra sancta” dove il cristianesimo ha avuto origine.

Sarebbe troppo complesso esaminare qui i motivi che hanno portato alla realizzazione di quest’opera, pur così importante per i credenti e per gli studiosi della storia del cristianesimo, soltanto duemila anni dopo il Fatto – perché di un fatto storico si tratta – della venuta di Cristo. Ma se si è arrivati a questo, superando difficoltà che avrebbero scoraggiato chiunque, lo dobbiamo alla tenacia dei padri della Custodia della Terra Santa, la comunità francescana arrivata qui otto secoli fa.

Il Museo sarà il frutto di un lavoro archeologico che si perde nella notte dei tempi. Si può dire che l’archeologia sia nata proprio qui, con “l’invenzione” delle sacre reliquie – si chiamava “inventio”, nella lingua latina, il lavoro di reperimento delle fonti. Di questo lavoro archeologico si ha anche una ricca documentazione a partire dall’anno 1921, quando i francescani cominciarono a pubblicare con regolarità i risultati delle loro ricerche nella rivista La Terra Santa. Di questa pubblicazione, di eccezionale importanza storica, si è anche cominciato a digitalizzare i contenuti.

Sempre in quegli anni giunse in Terrasanta un ragazzino, un seminarista che voleva seguire la sua vocazione religiosa sulle orme del Poverello di Assisi. Questo ragazzino si chiamava Canio Corbo e proveniva dalla mia regione, esattamente da Avigliano, in provincia di Potenza. Muterà il suo nome in quello di padre Virgilio, una volta presi i voti religiosi.

L’attività scientifica dei francescani in Terrasanta ha il suo centro nello “Studium Biblicum Franciscanum” di Gerusalemme nel quale si sono succeduti importanti frati-archeologi, da padre Camillo Bellarmino Bagatti fino all’ultimo dei grandi archeologi dei Luoghi Sacri, padre Michele Piccirillo, deceduto purtroppo prematuramente, cinque anni fa. In questa lunga schiera di insigni studiosi bisogna inserire, indubbiamente, padre Virgilio Corbo; non soltanto per l’eccezionalità dei i risultati delle sue ricerche, ma anche per il suo particolare carisma. E c’era certamente bisogno di una personalità carismatica come la sua ogni volta che si determinavano quei problemi tipici di un contesto così caldo come il Medio Oriente.

Il carisma proprio di padre Virgilio Corbo fu indubbiamente questo, fu legare la sua attività di ricerca archeologica alle circostanze storiche che venivano a presentarsi nella drammatica successione degli eventi. Particolarmente, dopo un fatto storico destinato a mutare radicalmente il modo di presentarsi della Chiesa al mondo: il primo viaggio apostolico di papa Paolo VI in Terra Santa.

Era l’anno 1964. Quello era il primo viaggio di papa Montini e il primo atto di quel viaggiare per il mondo che diventerà, sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, la nota distintiva del modo di fare il papa oggi.

Mentre Paolo VI era a Cafarnao, qualcuno, mostrandogli le antiche rovine della città, gli aveva indicato un punto dove, presumibilmente, si trovava la casa di san Pietro, la prima residenza di un papa. Una casa che era stata anche, per buona parte della sua vita pubblica, la residenza del Signore.

Tante imprevedibili circostanze avevano restituito al papa l’atmosfera più autentica che doveva respirarsi ai tempi di Gesù. In particolare, la folla che spontaneamente si era accalcata al suo passaggio. Non ci si aspettava un concorso di popolo così massiccio in un paese che cattolico non era. Ma c’era così tanta gente che premeva per avvicinarsi a lui, che a un certo punto il papa perse il contatto con gli uomini del suo seguito e si ritrovò solo, sulla riva del lago, mescolato alla folla.

Non fu facile riprenderlo. Inutilmente il suo segretario don Macchi cercava di raggiungerlo. «Sono il segretario di Paolo VI» tentava di spiegare a un inflessibile poliziotto, il quale rispondeva sarcastico: «E io sono il segretario di Kruscëv».

Il francescano di Avigliano padre Virgilio Corbo, quando Paolo VI aveva fatto quell’imprevisto pellegrinaggio, si trovava in Terra Santa già dal lontano 1928, cioè da quando aveva appena dieci anni. Dicono che gli aviglianesi siano persone testarde, burbere; dicono anche che quando si ficcano in testa qualcosa non stanno a pensare alle conseguenze. Certo, non si può generalizzare; ma nel caso dell’aviglianese padre Virgilio Corbo tutto questo è vero: aveva una testa dura e andava avanti per la sua strada, infischiandosene di tutto.

Al tempo del viaggio di Paolo VI, padre Virgilio stava lavorando a una campagna di scavi sul monte dell’Herodion, scavi che poi sotto la direzione dell’israeliano Ehud Netzer portarono al ritrovamento della tomba di Erode il grande. Dopo la visita del papa, però, nella testa di padre Virgilio si insinuò un altro pensiero fisso: scavare in quel punto che qualcuno aveva indicato al pontefice come la probabile dimora del Signore.

Fu così che il frate-archeologo se ne andò a Cafarnao, sulle rive del lago di Tiberiade. Lì, duemila anni prima, il pescatore Pietro aveva una casa dove abitava con la sua famiglia: la moglie, la suocera, il fratello Andrea e tutto il resto della parentela.

Quando Gesù arrivò in quel paese, successe più o meno la stessa cosa che si verificherà durante la visita di Paolo VI. «La folla lo assediava» racconta l’evangelista Luca. Allora Gesù, per poter prendere la parola tra tutta quella gente che premeva da ogni parte, salì su una barca, cercando di scostarsi un po’ dalla riva. La barca era di questo pescatore che allora era ancora conosciuto col nome di Simone. Dice il Vangelo che, sentendo parlare Gesù e vedendo le cose straordinarie che faceva, «un grande stupore di era impossessato di lui e di tutti quelli che erano con lui».

Simone Pietro volle offrire la sua ospitalità a quel giovane forestiero che si stabilì, così, nella sua casa di Cafarnao. Quando padre Virgilio Corbo terminò i suoi lavori di scavo sui resti di quella casa era l’anno 1986. Il giorno 29 giugno dell’anno 1990, sulle rovine di quell’abitazione, fu consacrato un santuario: il Memoriale di san Pietro.

Un giornalista, accorso per l’occasione, pensò di andare a domandare al francescano di Avigliano quali prove ci fossero che quella fosse proprio la casa di Pietro. Padre Virgilio lo liquidò un po’ bruscamente: «È da vent’anni che studiamo questi reperti». Quel giornalista non poteva sapere, come non potevano saperlo se non gli addetti ai lavori, che quell’umile frate lucano era autore di un centinaio di pubblicazioni scientifiche sull’argomento e aveva condotto brillantemente diciannove campagne di scavo soltanto nel sito di Cafarnao.

Del resto, come si poteva immaginare che quel frate che se ne andava in giro sempre in abiti da muratore fosse un archeologo di fama mondiale? Non mostrava, infatti, quella tipica raffinatezza di certi archeologi. Per scavare si era procurato addirittura un bulldozer cingolato. Perché a uno come lui non poteva bastare un semplice bulldozer su ruote di gomma.

Raccontava il suo inseparabile confratello padre Stanislao Loffreda che una volta una ricca donna americana, nel vedere padre Virgilio tornare dagli scavi tutto sporco, si sentì in dovere di prendere uno spicciolo dalla sua borsetta, lasciandoglielo come elemosina. Più o meno la stessa cosa che capitò con un’altra signora, una giapponese, che – riferisce sempre padre Loffreda – «offrì un sacchetto con dentro due pani, un uovo, due fettine di formaggio, un cubetto di burro e un po’ di marmellata. Era la sua colazione e se ne privava, poverina. Poi venne la sua guida e salutò con effusione il padre Virgilio, presentandolo al gruppo con lodi sperticate. Lascio a voi immaginare come rimase senza fiato quella cara donna giapponese».

Padre Stanislao Loffreda è stato il testimone più diretto del grande carisma di questo frate. Egli racconta: «Quando io, che stavo terminando la mia tesi di laurea, accettai di essere suo assistente di scavo, il mite padre Bagatti, uno dei nostri grandi archeologi, mi disse con tono sornione: “Stanislao, cerca di resistere almeno una settimana con quel tipo là” […] È così che nel 1962 Virgilio ed io cominciammo a lavorare insieme, non per una settimana, come si augurava Bagatti in un eccesso di ottimismo, ma per tutta la vita. Diventammo amici inseparabili, fratelli siamesi. Se vedevano Virgilio senza di me o me senza Virgilio, temevano una sciagura: “Cosa è successo?” Alcuni frati buontemponi ci chiamavano Ollio e Stanlio. Lui, corpulento, era Ollio, mentre io, allora mingherlino, ero Stanlio».

Diceva padre Stanislao: «Ricordo ancora quel lontano 22 novembre del 1968 quando nella sala venerata incontrai una serie di pavimenti intonacati con numerosi frammenti di lucerne del primo secolo. Virgilio stava prendendo i piani in un’altra parte dello scavo e io gli gridai: “Corri, Virgilio, corri”. Lui, molto occupato e pensando a uno dei miei soliti scherzi, mi rispose con una parolaccia, ma poi venne perché ero fuori della grazia di Dio nel gridare. Quel giorno – lo confesso con tutto candore – Virgilio e io perdemmo per qualche istante la freddezza della scienza pura: i nostri occhi si inumidirono per la commozione».

Durante la solenne dedicazione del Memoriale di san Pietro, di fronte al cardinale Lourdusamy che presiedeva la cerimonia come inviato di Giovanni Paolo II, padre Corbo pronunziò queste commosse parole: «Eminenza, dopo anni di lavoro, sono venute alla luce le pietre dove ha camminato Lui, il Maestro. È questa la casa di Pietro il pescatore». Poi l’emozione lo tradì.

Ricordava il cardinale: «Tutta la cerimonia della consacrazione è stata un’emozione unica per me. Ma quando padre Virgilio Corbo mi ha parlato per la consegna delle chiavi del Memoriale, la mia commozione è stata al massimo. Sunteggiando una scoperta forse irripetibile, guardavo i suoi occhi umidi di lacrime. Sono stato fortemente tentato di abbracciarlo e di dirgli: questo è l’abbraccio che ti fa il Santo Padre».

Il successore di Pietro è tornato poi a Cafarnao durante l’Anno Santo del Duemila, il Grande Giubileo. Giovanni Paolo II sentiva che il papa non poteva non tornare alla casa del pescatore che duemila anni prima aveva preso in casa sua, come uno della famiglia, quel giovane forestiero chiamato Gesù, incontrato sulla riva del lago, che gli aveva chiesto di poter salire sulla barca.

Virgilio Canio Corbo non c’era più quando il Santo Padre, durante il Grande Giubileo del Duemila, aveva fatto questo viaggio apostolico. In compenso c’era ancora il suo fedele amico padre Stanislao Loffreda, che ha raccontato: «Giovanni Paolo II rimase profondamente e visibilmente commosso nel visitare a Cafarnao la casa del suo predecessore san Pietro quella sera del 24 marzo del 2000. Gli dissi scherzosamente – sono incorreggibile: scherzo anche con il Padreterno quando prego – “Santità, san Pietro è un buon ebreo e conosce bene le leggi del Giubileo secondo le quali ogni israelita ha il diritto di tornare alla propria casa. Questa sera, nella sua persona, Simon Pietro ha lasciato a qualche santo le chiavi del paradiso e dopo duemila anni è voluto tornare qui alla sua casetta di Cafarnao per rivedere queste mura, quella soglia, questi pavimenti scavati dal nostro francescano padre Virgilio Corbo, che è sepolto a due passi da noi”.»

Commentando quella giornata giubilare sul Giornale di Brescia, Arcangelo Paglialunga, decano dei giornalisti vaticanisti, volle rievocare l’analoga visita di Papa Paolo VI avvenuta nel 1964 quando il papa «il 5 gennaio, di primo mattino – vento gelido e cielo sereno – raggiunse Nazareth per la messa nella Basilica dell’Annunciazione; poi Cana, il luogo del miracolo del vino per i giovani sposi; da qui scese al lago di Tiberiade dove Pietro fu chiamato “pescatore di uomini”, toccò l’acqua e si fece il segno della Croce. Una sosta a Cafarnao nella “casa di Pietro”, sui ruderi ritrovati dagli archeologi francescani, quindi visita al Tabor, il Monte della Trafigurazione».

Ricordava ancora Paglialunga che, in quella occasione, qualcuno aveva donato a Paolo VI una colomba bianca come augurio di pace per quella terra tormentata. La pace era anche tra le cose che padre Virgilio Corbo, da buon francescano, desiderava di più per la sua Terra Santa. E questo ci fa anche capire quante difficoltà il nostro padre Virgilio ha dovuto affrontare per lavorare in una terra attraversata da tensioni sociali acutissime, dove basta un nonnulla a scatenare atroci violenze.

Di questa situazione sono ben consapevoli i francescani. Un curioso episodio rende bene l’idea di questo clima di tensione, fortunatamente senza conseguenze, quando padre Corbo, iniziando i lavori di scavo all’Herodion, involontariamente fece scoppiare un putiferio. Dovettero intervenire addirittura le Nazioni Unite, perché gli israeliani, che sono sempre sul piede di guerra, vedendo che da quel monte si sollevava un gran polverone si erano convinti che in quel punto un ipotetico nemico stava scavando delle trincee, prima di attaccarli.

La realtà era meno preoccupante: padre Virgilio, con la testardaggine di un aviglianese, si era messo a scavare tra le rovine, alla testa di una squadra di un centinaio di facinorosi beduini. Un’enorme nube di polvere si sollevava dal sito che, tra l’altro, è uno dei siti archeologici più spettacolari che esistano. Tanto spettacolare che è chiamato dagli arabi Giabal Fureidis, il monte del paradiso.

Si comprende, dunque, perché il padre Virgilio Canio Corbo era così contento ogni volta che si profilava per la sua amata Terra Santa un accordo di pace. Il 19 novembre 1977, per esempio, quando il presidente egiziano Anwar Sadat si recò a Gerusalemme, sembrò di essere a un passo dalla pace definitiva. Allora il francescano di Avigliano si rivolse a padre Loffreda, il suo amico sempre presente, e gli disse: «Stanislao, se arriva davvero la pace ci ubriacheremo tutti e due, parola d’onore».

Non fu così. Ma adesso a Gerusalemme si lavora all’apertura del primo museo sulle origini del cristianesimo che custodirà i reperti portati alla luce da padre Bagatti, da padre Corbo, da padre Piccirillo e da tanti altri archeologi francescani, oltre ad altre preziose testimonianze storiche.

«Oggi, più che mai» spiegano i padri della Custodia della Terra Santa, «è di fondamentale importanza far conoscere al mondo intero la storia della presenza cristiana in Terra Santa; per favorire una maggiore consapevolezza delle nostre radici, contribuire all’unità della “famiglia umana” e diffondere un messaggio di pace nel mondo».


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