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Avvicinava
(e lo sapeva fare bene quantunque lei)
parestesie sintetiche a sinfonie minori
e nel bisogno del soccorso diaccio penultimo chiamato quella mattina presto
diceva così, per dire, che immaginava cosa fosse morire
ma no, ma no. Era d’incanto staffetta e privilegio, era
subìta, anafettiva, anaclitica, corsiva
era così, ci farete qualcosa voi rampanti voi smaniosi?
Era così. Sulla poesia posa vodka ghiaccia
e sinuosa
passa al recitativo peso, passa al fitto e pensa:
” un piccolo dio, un picciol cristo, fatto carne près de moi
seduto a tavola, in mezzo, guarda verso la finestra aperta
e non vede l’incandescente tra i monti e il blu virare
non vede le ragazze correre e Rosella bianca andare a
prendere il fresco e il duro a filari in fuga e germogli, in
prati larghi e gola e schiuma prossimi a più brevi notti.
Ma il varco. Vede l’apertura, il foro, la cerniera
lui radioso. Vede il pertugio stante, non ha pensiero
alcuno, per la sera, per la bambina e quell’infinità. Là.”
E quel pensiero
arreso al vecchio mondo universo preso
accese forme solite sembra solo assecondi
sul crinale scomposto del terzultimo incedo
un cagnino bianco ed un gattaccio nero.