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Il titolo è già un elemento su cui ragionare. La Barnard per denominare la sua opera ha preso in prestito il nome del primo lavoro di Andrea Dunbar, scritto all’età di soli 15 anni, che raccontava la storia di una ragazzina messa incinta dal padre alcolizzato. Opera molto personale perché la Dunbar stessa ebbe una gravidanza poi finita male a quell’età. Ma Brafferton Arbor è anche il quartiere working class in cui Andrea visse e che la ispirò per i suoi scritti, i quali come viene ripetuto nella pellicola trattavano semplicemente di cosa lei vedeva (e viveva) ogni giorno. C’è quindi una forza profondamente radicata nel territorio all’interno delle sue opere, e Clio Barnard cerca di riproporre questa vicinanza alla strada insertando il proprio film con alcuni atti di un’opera della Dunbar, la particolarità è che tali scene sono proprio ambientate nelle vie di Brafferton Arbor senza alcuna scenografia se non quella proposta dall’anonimo paesaggio della contea, una specie di Dogville (2003) urbanizzato.
Detto questo, che già dona una certa particolarità, è opportuno sondare la polpa della pellicola per scoprire che l’etichetta di documentario gli va parecchio stretta. Sebbene vi siano dei filmati d’archivio della BBC proposti a schermo ridotto in cui si può vedere la Dunbar e alcuni dei suoi famigliari, il resto del film è costituito dalle testimonianze dei figli (ne ebbe 3 con 3 mariti diversi) e delle persone che l’avevano conosciuta. La peculiarità è che si tratta di attori, non di veri amici o veri parenti, per cui la patina documentaristica scivola via rapidamente mostrando il suo nocciolo di pura finzione. Questa piccola “scoperta” è con ogni probabilità il cuore del film, e Clio Barnard insiste su tale punto perché già verso metà pellicola racconta della morte improvvisa della scrittrice da tempo fedele compagna del bicchiere, per spostare l’attenzione sulla sua primogenita Lorraine nata dal breve rapporto con un uomo pakistano. Qui avviene una sorta di duplice contatto: la Barnard si focalizza sulla terribile storia di questa ragazza (eroinomane, madre sciagurata), e a sua volta questa storia sembra essere sputata dalla penna della Dunbar. I due cerchi si sovrappongono nella narrazione del film in questione che, tenendo sempre conto del nome che porta, potrebbe benissimo essere un’opera postuma di Andrea Dunbar.
Apprezzato dalla critica inglese, The Arbor è in effetti maggiormente fruibile da uno spettatore anglosassone: per la lingua (davvero arduo stare dietro all’incessante favellare britannico); per i riferimenti contestuali che trattano un’epoca e un quadro sociale a noi poco stuzzicante; e per il soggetto dell’opera, questa Andrea Dunbar di cui niente si sapeva.Resta una forma accattivante e sperimentale; che non sia molto sono d’accordo, ma almeno c’è.
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