Ecco, uno guarda il pilota di The Bridge, nuovissima serie ammerigana sul confine col Messico, letteralmente, che qui da noi viene trasmessa in contemporanea con gli States, santa cosa.
E… per qualche giorno se la fa pure piacere.
Poi arriva il secondo episodio. E capita addirittura che uno rimanga colpito da una scena in particolare, meritevole di costruire, solo mostrando, la protagonista principale, meglio che con decine di parole buttate lì, per contratto.
Accade infine che uno si mette a scrivere la recensione che ora leggete e, strada facendo, si incazzi di brutto, ripensando a certi dettagli, e che un articolo, rimasto bozza, sugli stereotipi cinematografici che il tipo stava scrivendo un’oretta fa diventi materiale perfetto per descrivere ciò che è il suo reale sentire, circa questa nuova serie.
Diane Kruger fa Sonya Cross, detective di El Paso, Texas.
El Paso confina con la messicana Ciudad Juarez.
Viene trovato un cadavere di una donna sul confine tra El Paso e Juarez. Esattamente nel mezzo.
Solo che i cadaveri sono due. Una metà superiore e una inferiore. Una negli Stati Uniti, l’altra in Messico.
A Sonya Cross si aggiunge, quindi, un detective messicano, Marco Ruiz (Demian Bichir).
Ebbene: volendo riassumere, The Bridge è:
gli americani fighi e professionali – celo
i messicani lassisti e approssimativi – celo
la protagonista femminile un po’ toccata, ma brillante – celo
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il protagonista maschile uno che sa come stanno le cose – celo
il co-protagonista un giornalista quarantenne fallito e avvinazzato che ha scritto (forse), in illo tempore quand’era un bravo giornalista rispettato da tutti, un pezzo scomodo che ha attirato su di sè attenzioni indesiderate – celo
il serial killer americano di prostitute messicane – celo
il messicano tipo Machete a cui hanno rapito la donna, ora incazzato nero – celo
l’altro serial killer, quello genio del computer che si diverte a provocare la polizia con messaggi lasciati sul cellulare, con la voce distorta tipo Saw – celo
la polizia messicana un gruppo di spaventapasseri nelle mani del cartello della droga – celo
la polizia statunitense invece figa e professionale (reprised) – celo
la vedova del ricco messicano naturalizzato statunitense che fa entrare gli immigrati clandestini – celo
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E tutto ciò in soli due episodi.
Che poi, a voler essere polemici, con tante attrici americane che ci sono chiamano proprio una tedesca di Algermissen, a fare l’americana?
Che mi sta pure simpatica, Diane Kruger, solo che non posso fare a meno di notare la particolarità della situazione.
Altra cosa, dannato il Dott. House e tutti i suoi cloni. Che siano maledetti.
Will Grahame
Visto che ora ci viene imposto il protagonista pazzoide, a modo suo geniale, ma emotivamente non pervenuto. Come non avesse mai abbandonato l’utero.
Roba che gente così l’avrebbero rinchiusa, interdicendola dai pubblici uffici, qui invece, quello che, richiamandomi al “buon selvaggio” potrei definire “il pazzo bonario”, assurge a modello di narrazione interessante, e a un ancora più complicato esempio di new way of life, qualcosa del tipo: sono pieno di traumi e complessi, ma vivo felice lo stesso, visto che sono tutti gli altri che si devono adeguare alle mie pazzie. E io non devo fare nessuno sforzo, ché sono il protagonista.
E oltre a Sonya Cross c’è Will Grahame (del serial Hannibal), che appartiene alla stessa categoria dei pazzoidi bonari che vengono sopportati per un fine superiore, e che è attualissimo.
Anche qui siamo alle prese con un folle che vive i delitti esaminando le scene del crimine. Un tipo talmente strano che nessuno vorrebbe avere accanto (al pari di Hannibal, lo psichiatra che solo a sentirlo parlare ti fa venire voglia di una lametta nei polsi, e che parla sempre di psicosi e ricette a base di carne), ma che funziona, è efficace, fa il suo lavoro e risolve problemi.
E qui ci sarebbe da fare, e forse in futuro lo faremo, tutto un discorso sul simbolismo che questi personaggi emotivamente assenti incarnano, e quanto questo disfacimento controllato della psiche si possa associare all’attuale società americana, passata dalla potenza e fiducia degli anni ottanta, a essere posseduta (come il suo debito pubblico) da potenze straniere (la malefica Cina, tra le altre).
Mads Mikkelsen nei panni di Hannibal Lecter
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In un certo senso, Diane Kruger rappresenterebbe il popolo americano, strano, traumatizzato, ma pur sempre efficiente, contrapposto ai messicani, che poi sono gli italiani delle americhe, superstiziosi, razzisti, che sfornano figli in continuazione (infatti il protagonista maschile s’è appena fatto la vasectomia), che incarnano un modo di vivere più colorato e medievale, da cui guardarsi, ovviamente.
Potrebbe darsi… e in tal caso il tutto assumerebbe contorni più intriganti.
Diane Kruger
O forse hanno, gli autori, soltanto pescato dallo schedario degli stereotipi, che ricordo sono definizioni universali sulla percezione comune rispetto un qualunque argomento, e hanno raffazzonato un telefilm contando sulla dicotomia, anche questa ormai diffusissima, tra indagine investigativa/brutalità dei crimini. Con un corpo composto di due metà non c’è da scherzare.
Staremo a vedere.
Nel frattempo, mi godo quei minuti dedicati, nel secondo episodio, a Sonya Cross, che, da buona agente delle forze dell’ordine americana stereotipata, ha:
una vita privata oltremodo ridicola e fallita, infatti passa la serata mangiando cibo cinese su un letto disfatto, coperto di foto di cadaveri mutilati (perché lei è insensibile, ricordiamo), con accanto un laptop aperto su pagine internet di non so cosa.
Si accoppia quando capita.
E quando non dorme o scopa, torna a guardare foto di smembramenti.
Che bella vita.
Ma il tutto è presentato con tale spontaneità e mestiere… che tutti dovrebbero prendere esempio da quei cinque minuti.