Magazine Cultura
C'è stata la parentesi di un Ep spagnolo, Under Construction ed un cadeax natalizio ma Elvis Club è il primo vero album dei Del Lords da ventanni a questa parte. Dalle fotografie paiono leggermente invecchiati ma mantengono il phisique du role, soprattutto hanno conservato nel suonare la verve di un tempo, quando negli anni ottanta rappresentavano la parte più schietta e ruspante del rock newyorchese. Di quella formazione sono rimasti il cantante e chitarrista Scott Kempner, il chitarrista, produttore e cantante Eric "Roscoe" Ambel (che molti hanno visto anche al servizio di Steve Earle) ed il batterista Frank Funaro. Manca il bassista Manny Caiati che aveva partecipato alle registrazioni di Under Construction ed è qui, invece, sostituito da Michael DuClos. Un classico quartetto rock n'roll, nella più rigorosa definizione del genere perché in anni non sospetti, come la seconda metà degli anni ottanta, i Del Lords suonavano, senza vergogna di essere considerati passatisti, una spumeggiante miscela di rock n'roll di derivazione fifties, power-pop e micidiali canzoni da tre minuti costruite ascoltando alla nausea i 45 giri dei Creedence Clearwater Revival. Una bar-boogie band coi fiocchi, capace di esprimersi alla grande anche in sala di registrazione, due cantanti complementari e con l'ugola dei bassifondi, due chitarre assassine ed una sezione ritmica scoppiettante. I Del Lords suonavano con l'energia del CBGB e la rabbia dei fortunate sons e conoscevano i trucchi della notte newyorchese, non a caso i loro dischi e i loro show erano un' esplosione di contagioso e ridente rock n'roll. Hanno seminato bene e raccolto poco ma sono in tanti a non essersi dimenticati di loro. E' quindi con entusiasmo che saluto l'arrivo di un loro nuovo disco, Elvis Club, titolo quanto mai azzeccato per identificare una musica che sebbene approdata nei club della Grande Mela è partita da Memphis negli anni cinquanta e strada facendo ha assorbito tutto quanto c'era di meglio da raccattare nei piani bassi del rock n'roll. Naturale che i Del Lords ne diano una versione urbana ed elettrica, dal forte accento metropolitano sia nelle liriche, il genere si può tranquillamente sintetizzare con il motto è duro essere un santo in città, sia nei suoni, spigolosi, tesi, secchi ma puliti, anche quando lasciano spazio alle ballate. Lo stile non è cambiato rispetto ai "famosi" dischi del passato, Frontier Days, Johnny Comes Marching Home, Based On A True Stories, Lovers Who Wonder ovvero, con una frase che usai al tempo, serie B ma col coltello tra i denti, tanta energia ed onestà supportate da una solenne dose di abilità strumentale, arguzia compositiva e malizia vocale. A dirla tutta Elvis Club non soffre minimamente i paragoni coi lavori giovanili, è un disco che viaggia spedito e pimpante, senza nessuna nostalgia di ricreare il passato perché il presente è splendido ed il loro sound è ancora in grado di far salire la febbre in città. Lo hanno registrato a Williamsburgh, quartiere di Brooklyn, zona emergente nella geografia artistica ed esistenziale newyorchese, e la freschezza si sente. Basta far partire il disco e When The Drugs Kick In, canzone su una dipendenza vissuta e poi risolta, mette subito Ko. E' il mio brano rock preferito di questa primavera 2013, ha un drive irresistibile ed una naturalezza esemplare, una canzone che entra nella pelle, nel sangue, nel cuore, nella testa. E' il rock che va a nozze col miglior pop, la voce trafigge i sensi, la sezione ritmica accende i motori, le chitarre non danno scampo. Tutto il disco mantiene le promesse del primo brano, anche se questo è realmente super con quel refrain, non ci sono cedimenti sebbene la veste sia quella di un rock operaio sobrio e schietto, senza presunzioni di grandeur. Dodici tracce che sprigionano vitalità, determinazione, senso del rock n'roll. A volte spingono verso il punk (Princess), a volte tirano il boogie (Chicks, Man), ci sono i toni roots di Flying e i Byrds dietro l'angolo di Everyday, c'è la ballatona con chitarra acustica e tono confessionale (All Of My Life) e il crudo rock chitarristico con wah-wah di Me& The Lord Blues, c'è il power pop di Damaged e la melodica Letter (Unmailed). C'è un grande assist col titolo di Silverlake con twangin' guitar, coretti ed un romanticismo da Lower East Side caro a Jesse Malin ed un finale, Southern Pacific, così selvaggio che starebbe bene in Psychedelic Pill di Neil Young e i Crazy Horse. Poi mi accorgo che è una cover di Neil Young, stava su Reactor. Quella dei Lords è di un'altra categoria, la versione dell''ultima grande e irriducibile rock n'roll band di New York City.
MAURO ZAMBELLINI
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