“The Double” (id., 2011) è il primo film da regista di Michael Brandt. Dopo alcune sceneggiature (tra cui “3:10 to Yuma” e “Wanted”, certo non opere epocali e lungometraggi di livello eccelso) si è tolto la soddisfazione di dirigere una storia scritta da lui stesso con Derek Haas. Tutto sembra promettere bene ma il cerchio non quadra e tutto appare un surrogato di una spy di replica e di doppi giochi, senz’altro adatti ma spenti, e per certi aspetti includenti nel passaggio registico. Un film dove la tensione non regge il contesto effettivo e ogni groviglio dei personaggi non porta ad un’ansia adrenalinica delle immagini. Anche i volti degli attori interiorizzano in parte ciò che vogliono darci e il cast risente di una direzione poco convincente e/o almeno alquanto uniforme e piatta. Le scene vengono montate con pezzi panoramici, allungamenti sulla Casa Bianca e crocevia di strade o ponti su Washington. Il barlume nesso tra i tetri visi (ma non più di tanto cupi) riesce con una musica che alza la tensione ma non certamente il livello thriller. Tutto il risaputo con avanzamenti logici legati e trasmessi a piombo dopo fuochi di occhiate e telefonate monitorate. E’ la regia che manca i luoghi e gli ambienti, è il girato che non convince nelle riordinazioni temporali, è lo shock del mistero che non adduce a trasmissioni nei neuroni, è il senso dei flashback che non spostano la misura dei personaggi, è il recitato quasi soporifero che aleggia oramsguardo sfinito che indietreggia negli scontri, è il culmine che manca per adottare un volto come simpatico-stronzo.
Tutto in questo film viene a noi come sappiamo (o possiamo immaginare) e il resoconto narrativo si esplica in colpi di scena e il vero doppio gioco (che si scontra abilmente) viene a noi come contesto di falso di chi racconta (e di chi vuole indagare). Un modo già visto (certamente) che non trova nel finale una ‘mattanza’ corposa delle scene e delle inquadrature. Un peccato perché lo schema a doppi binari della sceneggiatura prevede risvolti di grande partecipazione ma non riescono a venire fuori in modo forte e convincente.
Paul Shepherdson (Richard Gere) è un agente CIA che viene rimesso nel circuito lavorativo (già in pensione) per indagare sull’uccisione di un senatore. Si parla del ritorno di un certo ‘Cassio’ killer che Paul ha ucciso. A ciò non crede l’agente Ben Geary (Topher Grace), anzi ha la convinzione che non è morto. I due lavorano a fianco per cercare la verità. Tutto avviene con meccanismi e scene di suspense ‘incollate’ e ‘chiosate’: l’effetto si perde prima che arrivino. Certo Micael Brandt non è un regista di alto lignaggio in tali situazioni e si nota la non avvedutezza a far risaltare (ed esaltare) il momento clou in modo rutilante ed energico. D’altronde alcune sequenze sembrano che allunghino il resoconto della storia senza entusiasmare lo spettatore. La corsa a due in auto tra Paul-Cassio (o Cassio-Paul) rimuove lo spirito spettacolare ma aggiunge ben poco a una ulteriore ‘suspence’ oramai agli sgoccioli o già finita prima di cominciare. L’incontro-scontro in carcere fra i tre personaggi centrali del film (e l’indagine-interrogatorio) avviene troppo presto e lo smalto implosivo (del tutto) si perde e si annacqua nonostante percorsi a zig-zag e situazioni ambigue create ad arte per tenere vivo il tutto.
Inoltre è da dire che la scena dei delitti e delle foto in bella mostra dentro l’ufficio di Ben sono un gustoso piatto oramai senza commensali perché la ricerca (e il suo sillogismo molto intelligente e perspicace) si perde per gli stessi personaggi rivelando doppi giochi non fra loro ma allo spettatore oramai quasi satollo (per quel che il film di gusto prometteva). Non siamo dalle parti di David Mamet sceneggiatore e regista all’unisono, uno dei pochi di oggi (penso anche a Paul Schrader) che riesce a coniugare le due cose con un complesso movimento di macchina e uscite-rientri con scatole cinesi di rara raffinatezza.
Il cast non è totalmente amalgamato. Richard Gere ci mette la ‘professione’ mentre Topher Grace si immerge nel ruolo con fervore (non sempre riuscendoci). Martin Sheen trova un ruolo con poche battute ma riesce a prendersi la scena con poca fatica e molta grandezza.
Regia non sempre precisa nella direzione.
Voto: 5/6 (senza infamia e senza lode).
di loz10cetkind