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L’incipit (davvero bello con quell’albero che si abbatte su di noi) cita Vertigo (1958) mostrando col minimo sforzo – e il massimo risultato – la Storia fino a quel momento, laddove ad ogni anello del tronco corrisponde un avvenimento, una data, un colore.
Ma subito dopo il regista Jan Schmidt si inoltra in una prima parte decisamente piatta in cui accade poco di significativo; si comincia dal falò in cui vengono lanciati dei proiettili, per passare all’apatia verso gli animali (un cane, un serpente, una mucca: nessuno risparmiato). Il tutto pur risultando superfluo ha comunque il piccolo merito di delineare i rapporti all’interno del gruppo composto solo da donne, e si tratta di un rapporto matriarcale dove la donna anziana custode della memoria diventa guida e luce per il manipolo di ragazze che si porta appresso.
Terreno fertile per elucubrare quello che vede il capo sia come figura salvifica alla Saramago che come depositaria del ricordo alla Chris Marker, tanto più che una volta giunti all’Hotel Ozone il film si apre allo spettatore lasciandosi alle spalle quegli inutili giri a vuoto che fino a quel momento lo avevano caratterizzato, e inserendo nella diegesi l’unico uomo (l’ultimo?) di quella terra.
L’Hotel si presenta come isola di insperata umanità, con un bicchiere di latte che diventa sogno realizzato, e poi le sedie, un tavolo, una foto di Napoli, il grammofono che sputa sempre la stessa affascinante musica per quelle orecchie vergini. Tuttavia il pessimismo della pellicola si palesa con la dipartita della guida, e una volta spenta la sua tenue luce il mondo bicolore penetra anche nelle coscienze delle ragazze. L’uomo se ne accorge e le apostrofa in questo modo: “siete delle… bestie!”. Senza salvezza e senza ricordo sono un branco di animali che come nell’indimenticabile finale di Dead Man’s Letters (1986) si inerpica su per il crinale di una montagna, sole e soprattutto senza speranza.
Antiquariato con discreto valore.
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