Tre anni, due registi e un numero più che considerevole di stelle di Hollywood che hanno tentato di dar luce a The Fighter, per quella che a molti – e sin da subito – è sembrata un’opera affascinante e degna d’esser portata sul grande schermo. Il primo ad interessarsi al progetto fu nel 2007 Aronofsky, che poi dovette abbandonarlo per dedicarsi a The Wrestler (2008). Matt Damon e Brad Pitt, ai tempi, le star coinvolte in due diverse tappe nel progetto. Per disparati motivi il film slittò sino ad oggi, ma i produttori in questi anni non hanno mai voluto abbandonare la realizzazione del film biografico su “Irish Thunder” Micky Ward e il fratellastro per via materna Dicky Eklund. Nel 2009 David O. Russell diviene il regista incaricato dell’opera, con una carriera autoriale alle spalle che vantava opere come Spanking the Monkey (1994) e Three Kings (1999). Il film poteva dunque iniziare a muovere i suoi primi passi, che l’hanno portato a realizzarsi in soli 33 giorni e a concorrere agli Oscar in 7 categorie (fra cui miglior film), aggiudicandosi la statuetta per il migliore attore e attrice non protagonista, rispettivamente Christian Bale e Melissa Leo.
Micky Ward è un giovane pugile allenato dal suo fratellastro, Dicky Eklund, di otto anni più grande di lui ed ex gloria della boxe, disciplina in cui riuscì a gareggiare con risultati non proprio eclatanti. Una volta appesi i guantoni al chiodo, Dicky inizia a fare da preparatore al fratello, ora nel vivo della sua carriera sportiva. Il maggiore conosce bene la tecnica e il business che gravitano dentro e fuori i ring agonistici e, in principio, si dimostra un buon coach, coadiuvato negli affari dalla madre. Tuttavia le potenzialità di Micky non riescono ad essere espresse appieno, complici le decisioni poco lucide dei suoi manager: Dicky piombato nel tunnel delle droghe pesanti e una madre con un fiuto per gli affari discutibile. Riuscendo ad uscire da questo vortice familiare che stava rischiando di compromettergli la carriera, Micky trova il suo giusto percorso professionale – e amoroso – che lo porterà a combattere e vincere la finale dei pesi welter, per un riscatto umano ed esistenziale come nelle migliori tradizioni pugilistiche.
The Fighter possiede una potenza narrativa classica felicemente coniugata con una messa in scena tutt’altro che canonica. La storia dei due fratellastri in perenne lotta fra loro, il riscatto sociale promesso per i ceti sociali più bassi dalla boxe, le dure sconfitte e umiliazioni quotidiane ripagate dalla vittoria della vita risultano delle tracce più che note al pubblico. Fortunatamente, il regista David O. Russell è riuscito a superare questa impostazione narrativa con una messa in scena fragile, scheggiata, sporca e realistica molto convincente. Ha infatti tentato – e con grande efficacia e merito – di occultare parte del contenuto con la forma, per un’opera dalle tinte, impostazioni drammaturgiche ed estetiche che fortemente rimandano a The Wrestler (2008). Nondimeno, la narrazione possiede una base, una caratterizzazione dei personaggi e una lucidità di sviluppo solida e potente, per un film con dei dispositivi narrativi perfettamente oliati. Ma la forma non può occultare del tutto il contenuto, che è e rimane molto classico, forse fin troppo: nascita, conflitto e ascesa dell’eroe sportivo, senza particolari spunti narrativi e senza che si sia tentata una sperimentazione contenutistica che andasse a rinverdire un soggetto oggigiorno logorato dai troppi utilizzi.
Nulla di male, si potrebbe obiettare, per un film che tiene incollati alle poltrone per tutti i 118 minuti di cui si compone. Angosciante, avvincente, onestamente riscattante e perfettamente costruito e recitato. Assolutamente vero, ma chi scrive crede che un soggetto del genere avrebbe dovuto osare di più; proprio perché nei luoghi narrativi più desueti e usurati meglio attecchiscono varianti e trovate narrative sperimentali. Non è andata così per The Fighter, e crediamo che la mano di Aronofsky avrebbe potuto imprimere all’opera un taglio più particolareggiato e artisticamente rilevante. Rimane comunque un maestoso film dal respiro epico e documentaristico insieme, che affascinerà – grazie alle ottime caratteristiche tecniche e artistiche – ampie platee. Se si aggiunge che, al contrario di altri film analoghi come Rocky (1976), è ispirato a una storia vera, la fascinazione di cui sarà capace aumenterà esponenzialmente, permettendo così più facilmente l’entrata in contatto da parte del pubblico con l’ottima prova attoriale di Christian Bale e di una tanto inaspettata quanto convincente Amy Adams.
Emanuele Protano