Da decenni i videogiochi si occupano, oltre che di quello che lo stesso nome ci rende facile intuire, anche di narrazione. Nati come ‘fai ribalzare la pallina dall’altra parte’, gradualmente, dopo vari e ardui processi di metabolizzazione si sono piano piano forgiati di un compito che è diventato sempre più importante e caratteristico del genere, e gioco dopo gioco, è riuscito a divenirne ormai una parte, per lo più, fondamentale.
Stare qui a riassumere tutti i vari step di passaggio che hanno permesso questo processo non avrebbe senso, sconfineremmo nell’oblio del tempo, nei vari cavilli di titoli mediocri che hanno introdotto quello o quell’altro, di titoli invece che hanno raccolto questi cavilli e li hanno portati alla ribalta del successo implementandoli con altre dinamiche eccetera eccetera… ma non siamo qui per sancire e attribuire meriti, ora.
Ci si trova a scrivere queste righe per ben altri motivi.
Il processo di maturazione è sempre un iter variegato e stratificato, di cui difficilmente si riescono a desumere con certezza e matematica suddivisione percentuale, tutti i vari elementi che lo hanno caratterizzato. Entriamo nel campo del teorico, del soggettivo, del più o meno oggettivo. Entriamo in un caos.
Ma in questo microcosmo, in questo giga-brainstorming in cui ci troveremo in mezzo, una cosa cade sempre con Newtoniana precisione. Un frutto
Saltiamo avanti di 20 anni.
Entriamo nel museo videoludico. Avremo molti titoli a capo delle loro piccole micro rivoluzioni, belli lì in esposizione. E tra questi titoli, tra questi frutti, quello del cambiamento sul fronte narrativo, della maturazione della narrazione applicata, inserita a contestualizzata in un videogioco, sarà proprio ciò di cui parleremo ora. Sarà proprio ‘The Last of Us”.
Più volte ci siamo soffermati nel ribadire quanto i videogiochi contengano storie, concetti, elementi filosofici, che la maggior parte delle volte non vengono notati. Questo, a onor del vero, non è sempre stata una carenza propria del pubblico a cui erano diretti. E’ vero, stando a scandagliare i titoli più variegati, da Rayman a Heavy Rain, da Monkey’s Island a Metal Gear, ci troveremmo di fronte a contenuti che riletti vanno ben oltre le mere proprietà ludiche che più o meno contengono e con cui fanno confrontare l’utente. E qui si gioca la partita –nella partita-, la partita degli equilibri.
E’ un gioco sottile, che mette da una parte il gameplay e dall’altra la narrazione della storia, e chiede di trarne un equilibrio che definirà il prodotto.
Vediamo nascere quindi i vari prodotti che ora, dopo anni di raffinamento, abbiamo ottenuto: troviamo gli Half Life; gli Halo; i Metal Gear; e Gears of War; i Cod; i Crysis ; gli Uncharted; Heavy Rain ; The Walking Dead etc etc. Potremmo stare qui snocciolare papiri di titoli che hanno aggiunto o tolto al loro personalissimo dosaggio, gocce di gameplay, gocce di narrazione. I risultati creavano i giochi che abbiamo giocato, perché noi come videogiocatori, a seconda della nostra preferenza, abbiamo spostato la nostra attenzione sul dosaggio che più ci allettava. Un giocatore affamato di gameplay si sarà tenuto pesantemente alla larga da Heavy Rain, come uno di narrazione si sarà tenuto lontano dal primo Gears.
Ma questi due giocatori agli antipodi, X e Y, oggi, possono finalmente posare la mano sulla stessa custodia e contendersela. The Last of Us, per quante definizione potrebbe trovare, è forse la prima, vera opera, che pone narrazione e interazione sullo stesso livello, creando un prodotto vivo e interessante adatto tanto a chi voglia ascoltare una storia, tanto a chi voglia ‘sudarsela’.
Ma di cosa parla?
Parla dell’umanità dopo l’estinzione dell’umanità.
E non parliamo in senso biologico, con orde di non morti che invadono il pianeta a fronte della esigua e sparpagliata resistenza umana. Parla della fine dell’essere umano, della scomparsa dal corpo di ciò che lo rende umano.
Ed è per questo che senza se e senza ma, il gioco, bastardamente (per chi si era tenuto a digiuno dai prewiev) ci porterà in un prologo che farà assaporare già nei primi venti minuti tutta la crudeltà in cui a breve ci troveremo catapultati, portandoci a vivere negli occhi di un padre, figura valida per allegoria, a cui è stata recisa la propria umanità tramite l’asportazione del suo organo più importante: sua figlia.
Ed eccoci catapultati in un futuro distopico, 20 anni dopo, sempre nei panni dello stesso Joel. Un Joel appassito come la civiltà che lo circonda, fatta di contrabbandi, di esecuzioni in piazza, di soprusi e di deboli pronti a scomparire sottomessi alla legge del più forte. Un mondo dove non c’è pietà, dove l’ordine marziale imposto da alcuni si contrappone ai saccheggi dei banditi, aggrappati tutti ad un unico e costante concetto : sopravvivere.
Ma The Last Of Us non è una storia di demoni, di zombie, di uomini non morti, e di uomini morti dentro. E’ una storia più dolce di quella che vorrebbe raccontare. Una storia raccontata di sponda, quasi involontariamente,. E’ la storia di una rinascita. La rinascita dell’umanità. Ma una rinascita che parte dal basso, molto dal basso, e senza neanche accorgercene.
C’è una cura miracolosa in gioco. C’è questa Ellie, una ragazzina che Joel si troverà a scortare per tutto il paese in un viaggio lungo un anno, e che porta con se niente meno che la speranza di tutti.
Ellie è la cura. E’ infetta, ma non è infetta, e se portata alle Luci (un gruppo ribelle) forse studiandola
si potrà trovare il modo di porre fine a tutta questa dannata situazione.
Ma il giocatore, prima che le Luci’, avrà modi di studiarsela da sé, questa cura.
Ellie è la cura, ma non perché infetta e non trasformata. E’ la cura perché nata in un mondo morto, rimane comunque viva’. Viva ed ‘umana’. E’ una ragazzina curiosa, dalla risposta pronta, vivace e ironica, un vero fiore che spunta in mezzo ad un mondo marcio, decadente, in rovina. Non ci sarà bisogno che mostri il suo polso, contagiato ma non mutato, per capire che porta in sé qualcosa che potrebbe salvarci. Qualcosa che potrebbe farci rinascere. E la sua missione, come detto, opera alla base.
Perché il suo compito più difficile sarà quello di far rinascere, prima che l’umanità, l’essere umano morto in Joel. Un essere umano che per sfuggire al dolore, sfugge al ricordo, nega il ricordo, ed è per questo portato a vivere con rigetto questa convivenza, dove la sola visione di Elie riesce a far saltare quelle cuciture che il tempo ha abilmente tessuto per tenerne insieme i pezzi.
Il loro viaggio sarà un viaggio, una cura sancita passo dopo passo, frase dopo frase, un ghiaccio impossibile da sciogliere che però sentiamo, goccia a goccia, cadere piano.
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