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The saw is family: famiglia tradizionale e cinema horror

Creato il 07 gennaio 2014 da Fascinationcinema

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Una famiglia riunita attorno ad una tavola, magari in occasione di una cena luculliana: sorrisi, regali, tanto calore umano. Uno degli stereotipi che, specialmente nel periodo delle feste, sembra essere tra i più diffusi nella nostra società. Ma cosa penseremmo se il piatto sul vassoio fosse di carne umana, e se i nostri commensali mostrassero strane inclinazioni verso il cannibalismo? Uno scenario che, nel caso del cinema horror, sembra assumere connotati molto comuni, nonché diametralmente opposti alla tranquillità, alla pacifica serenità che circonda la “famiglia perbene”, per assumerne altri decisamente più inquietanti.

Verrebbe spontaneo pensare a perversioni mentali da scrittori dell’orrore da strapazzo, costruite per accontentare i gusti di lettori o spettatori ancor più sadici: eppure nella metà degli anni 60 una storia terribile raccontò qualcosa di peggiore del più truculento horror, e venne narrata impietosamente dalla cronaca. Negli Stati Uniti Gertrude Baniszewski, durante l’estate del 1965, torturò ripetutamente – in collaborazione con il figlio – Sylvia Marie e Jenny Faye Likens, figlie adolescenti di una coppia di giostrai itineranti, i quali avevano pensato incautamente di affidarle loro dietro pagamento.

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Gertrude Baniszewski

La stessa, probabilmente ispirata da un morboso senso di moralità (oltre che da una pesante misoginia), praticò i più cruenti maltrattamenti fisici e psicologici alle povere ragazze, segregandole in casa in condizioni precarie, usando loro violenze di ogni genere ed istigando addirittura alcuni amici del figlio a far loro del male. Il tutto per una spaventosa sequenza di atti di sadismo perpetuati fino alla morte della sorella maggiore (Sylvia), per quello che passò alla storia come “il peggior crimine mai commesso nello stato dell’Indiana”.

Dietro la facciata di normalità di una situazione che, da giovani, molti di noi potrebbero aver vissuto (l’affidamento ad una baby-sitter, oppure alla vicina di casa), si nascondeva uno scheletro nell’armadio che non poté che ispirare parte del cinema horror nel seguito. Anni dopo, in effetti, Jack Ketchum si servì di questa storia per il suo libro a forti tinte exploitation La ragazza della porta accanto (1989) da cui, anni dopo (nel 2007), venne tratto un film omonimo (diretto da Gregory Wilson e poco noto in Italia anche perché, tre anni prima, uscì una commedia omonima diretta da Luke Greenfield).

La distorsione morbosa dei rapporti familiari, del resto, da sempre si pone come terreno fertile per intessere le più interessanti, macabre e  realistiche storie del terrore: ne abbiamo il più celebre esempio in Shining di Stanley Kubrick (1980), tratto dal famoso romanzo di Stephen King. Come possono l’alcolismo, il “senso del dovere” e l’isolamento intaccare la serenità dei rapporti di un uomo con moglie e figlio? Jack Torrance fornì la propria delirante risposta direttamente armato di ascia.

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Era il 1974 – nove anni dopo gli orrendi avvenimenti nell’Indiana – quando William Tobe Hooper, nato nel 1943 ad Austin (Texas), divenne una delle icone più celebri del panorama horror mondiale: il suo Non aprite quella porta accantona l’idea “poetica” del cinema gotico (fatto dell’orrore prevalentemente “iconistico” di mummie, vampiri e nobili decaduti) per focalizzare l’idea di una paura vivida, sporca, realistica e violenta, provocata da gente più o meno comune, che chiunque di noi potrebbe aver incontrato. Quasi come i replicanti di Don Siegel, queste paure erano avvertite come parte integrante della società, e sembravano attecchire profondamente nelle sue fondamenta, finendo per colpire con grande efficacia l’immaginario collettivo degli spettatori. Ed ecco che il quadretto familiare rappresentato da Hooper – una famiglia di psicopatici che cattura e sevizia dei ragazzi liberal e sessualmente attivi, un’allegoria miratissima che (di suo) rende superfluo qualsiasi trattato in merito – indica la crisi di un modello: la famiglia come certezza indiscutibile, già minata dai primi casi inquietanti di violenza domestica, venne minata (per quanto in misura forse inferiore a quanto si ami credere) dalle contestazioni del ’68, e sembrava ribellarsi a sua volta in modo moralista, rigido e spesso reazionario.

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Molto dell’orrore familiare di questo come di altri epigoni cinematografici, deriva da una paura subdola, occulta: la sequenza più significativa di Non aprite quella porta a tale riguardo è quella in cui alla povera Linda Kasabian (Marylin Burns), ormai catturata, viene procurato un taglio per far succhiare il sangue a nonno Sawyer. La sequenza resta impressa nell’immaginario non tanto per quello che mostra, quanto per il suo sottintendere un realtà agghiacciante. Un qualcosa di nascosto dietro un modello che, da molti, verrebbe assunto automaticamente come quantomeno innocuo: quello che sembra un innocente nonnino – al massimo con qualche problema di salute dovuto all’età – è in realtà un efferato cannibale. Hooper ci sbatte in faccia questa realtà in un dualismo tra la bellezza innocente della Burns e varie orride figure di redneck (gli stessi che, a ben vedere, avrebbero abbattuto volentieri gli Easy rider del film omonimo, in odio alla loro libertà ed indipendenza). Essi finiscono per confermarsi (in barba a qualsiasi principio politically-correct) in grado di commettere le peggiori atrocità, a volte schermandosi dietro la parvenza di normalità dell’uomo comune: ed è qui che risiede il loro interesse, nonché nella loro capacità di mandare in crisi qualsiasi modello preconcetto. La pretesa di mostri del genere di poter coabitare e coesistere con il comune spettatore era stata confermata in misura maggiore già qualche anno prima, nel 1972, quando Wes Craven firmava uno dei suoi film più controversi (L’ultima casa a sinistra) nel quale – dopo un moralistico incipit (per chi non lo ricordasse: “Questo film è dedicato a tutti i giovani perché sappiano a quali pericoli possono andare incontro: il CRIMINE! la DROGA! la VIOLENZA! Le scene che vedranno possano servire da esempio! Questo film in America ed in Inghilterra è stato proiettato a scopo didattico nelle maggiori scuole ed università!”) raccontava la storia di Krug & co, evasi dal carcere, nonché adescatori delle giovani Mary e Phillis, ingenue e spensierate ragazze di buona famiglia, affascinate dal mondo “underground” e libero offerto dalla controcultura dominante dell’epoca (stanno per recarsi ad un concerto open-air). Ed è solo la loro ingenuità a condannarle, in effetti: finite con l’inganno nelle mani del gruppo di delinquenti (tra cui una donna ed un ragazzo, da cui è deducibile una sorta di “tribalità”, più che di grottesca famiglia), verranno violentate ed uccise in sequenze al limite del sostenibile, per poi trovarsi vendicate – per via di un inesorabile destino – dai genitori perbene di una delle due. Al di là di una contrapposizione destinata a fare scuola nel seguito – quella di tutti i cosiddetti rape’n revenge – rimane l’impressione che a Craven interessasse sia shockare che mostrare “l’altra faccia della medaglia”: non tanto, quindi, fare moralismo o polemica contro il potere (presunto o reale che fosse) dei “figli dei fiori”, quanto metterne in evidenza le utopie, le contraddizioni ed i rischi, e questo proprio alla luce della feroce natura dell’uomo stesso. E questa violenza innata è presente, beninteso, sia per un gruppo di balordi privi di moralità che per una rispettabile coppia di coniugi, capaci di trarre in inganno e vendicarsi sadicamente dei carnefici della propria figlia. Gli stessi semplici, affettuosi ed apprensivi coniugi che avevano trasmesso alla prole (e di riflesso all’amica di lei) valori semplici e tradizionali, saranno capaci di uccidere sadicamente i carnefici, uno dei quali dopo averlo evirato.

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Una retrospettiva dedicata alla famiglia nel cinema horror non può esimersi dal considerare un ulteriore caposaldo exploitation: Le colline hanno gli occhi (1977), nel quale – ancora una volta – viene a verificarsi un contatto imprevedibile tra le sorti di una famiglia perbene da un lato, e di una cresciuta lontano dalla civiltà dall’altro. Nel film il poliziotto in pensione Bob Carter si reca con la famiglia nel deserto dell’Arizona, alla ricerca di una miniera d’argento che sembra aver ereditato. Un incidente stradale (topos classico dell’immaginario horror di ogni tempo e luogo) li blocca nel deserto: poco distante, si scoprirà, abita un individuo deforme con la propria famiglia dedita al cannibalismo, che innescherà una feroce lotta per la sopravvivenza. Anche qui la famiglia serve a delineare le “zone” in cui si muovono i personaggi, mentre il finale mostra inesorabile come sia relativa la linea di demarcazione tra “buoni” e “cattivi”.

Impossibile, poi, non citare un altro cult poco noto degli anni 80 (da poco riedito in DVD) ovvero Il tunnel dell’orrore (1981) di nuovo di Hooper: quattro teenager, nonostante le raccomandazioni dei propri genitori, si trovano all’interno di uno scalcinato parco giochi, e diventeranno adulti nel modo più traumatico: imbattendosi in un assassino deforme con la maschera di Frankenstein. Il feroce villain abita nel luna park assieme ai propri parenti psicopatici, vive una sessualità conflittuale e (di rigetto) violenta, mostrando così  le ennesime degenerazioni dell’apparato familiare. Specialmente se esso sia inteso come mondo esclusivo, come unico metro di giudizio di un mondo che non può fare a meno di cambiare e di evolversi. Curioso, a questo punto, rilevare come i genitori della povera vittima (reale) Sylvia Marie Likens citata all’inizio fossero davvero dei giostrai ambulanti.

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Senza citare per brevità la figura della madre nel cinema argentiano (su cui già molto è stato scritto), e tralasciando per un attimo le escursioni nel genere di molti altri registi “classici”, non possiamo, a questo punto, non citare due capisaldi del cinema francese del terrore, che fornisce ulteriori spunti di interesse per la nostra analisi: À l’intérieur (2007, di A. Bustillo e J. Maury, in cui – in un contesto similare a quello hooperiano – emerge una figura di madre-autoritaria che eredita molto dai succitati fatti di cronaca anni 60) e soprattutto Frontiers – Ai confini dell’inferno (sempre del 2007, di Xavier Gens), nel quale non ci sono dubbi che il modello di fondo abbia molto in comune con Non aprite quella porta, o che quantomeno lo usi come base. Nel film di Gens, infatti, un gruppo di fuggiaschi reduci da una rapina finisce nelle grinfie di una famiglia di psicopatici in cui il capofamiglia, grottescamente e fuori dal tempo, veste come un gerarca nazista (siamo ai tempi della rivolta delle banlieue parigina, nel 2005), e sembra osannare, oltre che il Führer, un modello di “donna accanto al focolaio” che vorrebbe imporre a tutte le ragazze della casa (in particolare all’algerina Yasmine, una Karina Testa davvero eccellente nonché scream queen nel senso più esteso del termine). L’imposizione di questo tipo di mentalità fa fuoriuscire un modello di “famiglia unica”, considerata da molti come l’unica possibile e da altri come repressiva, ponendosi al centro di una delle più scottanti discussioni in ambito politico e sociale degli ultimi anni. Derivato in parte dalla figura del nonno succhia-sangue di Hooper, il vecchio e crudele Von Geisler si rileva come una delle evoluzioni di personaggio più interessanti mai osservate nel genere, per quanto il film di suo non riesca – a conti fatti – a non far sembrare la politicizzazione della trama una quasi-forzatura. Peccato, perché comunque gli elementi di interesse del film sono numerosi, e soprattutto i vari personaggi vivono autonomamente, e non sono certamente mere imitazioni di modelli precedenti.

Il modello di fondo di buona parte degli horror con una famiglia di mezzo, del resto si riconduce altresì ad Alexander “Sawney” Bean, capofamiglia di una dissoluta ed incestuosa famiglia scozzese di circa 48 persone, che pare avessero commesso (siamo nella metà del 1500) vari omicidi ed atti di cannibalismo nei confronti di viaggiatori occasionali e visitatori di remote località. Del resto anche il recente (non eccezionale di suo, ma tant’è) Wrong Turn del 2003 di Rob Schmidt,  ci riporta un modello di famiglia distorta che, questa volta, non possiede più nulla di umano: un ennesimo esempio di tribalismo, di chiusura dei contatti col mondo e di rappresentazione di cosa avviene “quando due mondi si scontrano”. Stessa cosa che come accade, parallelamente, con Rob Zombie, che ha raccontato le efferatezze di una famiglia dall’aria stravagante (capace di concretizzare il top del sadismo) nei suoi film La casa dei 1000 corpi (2003) e La casa del diavolo (2005). In essi vengono ricalcati quasi tutti gli stereotipi analizzati nei lavori precedenti, anche qui vi sono coppie di giovani che vanno a stuzzicare famiglie poco raccomandabili, mentre i personaggi compaiono pesantemente truccati, come ad esasperarne il carattere grottesco o, se preferite, a voler ricordare a tutti che si tratta di film, non della realtà o di una qualsiasi declinazione di essa. Una dimensione più “cinematografara” che di denuncia, se vogliamo, quella di Zombie, ma non per questo priva di elementi di interesse. Se da un lato emerge infatti un gruppo di consaguinei che non hanno quasi nulla di umano, ancora una volta una figura femminile domina in entrambe le pellicole (Baby Firefly, interpretata da Sheri-Moon), nonostante ciò che resti impresso allo spettatore finisca per essere quasi esclusivamente la sua avvenenza fisica.

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Nel cinema italiano, del resto, quantomeno una citazione sembra meritarla l’originale e recente La casa nel vento dei morti (2012) di Francesco Campanini, che propone sullo schermo la storia di alcuni fuggiaschi che si imbattono in quella che sembra una famiglia contadina di sempliciotti. A conti fatti essa si rivelerà tutt’altro che raccomandabile, mentre lo scenario questa volta viene rafforzato dall’ambientazione storica. Siamo in Italia, fine anni ’40: il comportamento dei protagonisti è collegato, oltre che reso plausibile, dalla povertà e dal senso di disorientamento che dominava quel periodo, certamente in modo più credibile di quanto avvenga nella pellicola di Gens. Per la cronaca, nonostante quest’ultima renda visivamente molto meglio di quella italiana, la quale soffre di qualche piccolo difetto in fase puramente visiva.

Il nostro excursus, ben lungi dall’essere completo in questa sede, fa intuire come possa essere variegato, e difficile da catturare in certi casi, questo tipo di prospettiva “familiare” sull’horror, che rischia oggi di diventare banale se affrontata instancabilmente dal solito punto di vista.Un’analisi dei film orientati in questa direzione non può certo fermarsi a questi titoli: molti altri meriterebbero di essere discussi, ma è sicuro (ed è un po’ questa la “morale” della favola) che il cinema horror ne esce come un genere di spessore, per quanto a fasi alterne, e non tanto incentrato a mostrare più sangue e frattaglie possibili nel minor numero di minuti.

 

Salvatore Capolupo

 


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