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I segni di una forte influenza a livello di plot da parte del cinema americano sono evidenti, ai nastri di partenza il film si presenta infatti come molti altri suoi simili a stelle e strisce, la critica però nel soppesare la pellicola di Odar lo ha paragonato ad un film che a prescindere dalla nazionalità yankee è stato qualcosa di diverso nel panorama dei serial killer movie: Zodiac (2007). In effetti quanto viene proposto dal giovane regista possiede delle velleità introspettive che scansano le normali procedure investigative, e ciò lo si apprende dai profili dei personaggi che sono “dramma-strutturati”, calibrati nella dimensione filmica ad avere un polo d’attrazione personale nei confronti dell’omicidio in esame, si pensi ad una figura in primo piano come il commissario vedovo e alla sua impossibilità di superare il lutto, o ad un’altra sullo sfondo come la poliziotta incinta che con la sua presenza segna una maternità da venire contro una, anzi due, brutalmente annullate. Questa modellazione dei ruoli risulta però alla lunga marchiata dall’esasperazione e dalla coercizione sceneggiaturiale, elementi che ingigantiscono la sfera intima e che obbligano i soggetti ad interazioni improbabili (il pedofilo latente – si fa per dire – che va a far visita alla madre dell’assassinata non è di certo una trovata da applausi); va bene allontanarsi dalle cartelle dell’indagine e dalle procedure di inchiesta, va un po’ meno bene però se quest’ultime vengono sostituite da un’esplorazione degli stati emotivi che, almeno per il sottoscritto, sa molto di costruzione a tavolino, sia nella caratterizzazione dei singoli che nell’intreccio globale. Si può tirare nel mezzo Fincher solo per lo stesso punto (morto) a cui giunge questa polizia, ma appaiare i due film è mossa un tantino ardita: qui manca uno spartito drammatico realmente compatto e soprattutto latitano le conseguenze della caccia all’assassino, non c’è l’evoluzione dei personaggi nel rapportarsi con la preda perché la loro natura preconfezionata glielo impedisce.
Ritornando al discorso del cinema americano (perché ammettiamolo, Zodiac non sembra nemmeno battere quella bandiera) si può dire che il taglio europeo di Odar evita alla pellicola di precipitare nel telefilmico dando quindi minor risalto alla spettacolarizzazione del crimine. Il regista offre uno studio di inquadrature particolareggiato, andandoci giù pesante con gru e bracci meccanici che pongono la lente dell’obiettivo perpendicolare al suolo (la locandina è lì a ripeterlo), inoltre scandisce il passare dei giorni con delle panoramiche naturalistiche di discreto impatto. Sia queste che le riprese dall’alto imprimono un certo grado di suggestione al film, un respiro più ampio che in un certo qual modo lo nobilita, anche se l’argomento “suggestione” in ambito thriller ha toccato recentemente vette ben più alte, è voler fare i pignoli perché Ceylan è di altra caratura, ma C’era una volta in Anatolia(2011) sa essere molto più incisivo nel campo della fascinazione. Comunque, la pulizia sì e no geometrica del tutto non è da disdegnare, al pari di alcuni giochetti sonori proposti non di rado lungo lo snocciolamento della trama.
Gli attori d’alto livello, ma a cui, come visto, non è stata fornita una profondità convincente, e uno stile perfettibile con però sofisticature degne di nota, lasciano Das letzte Schweigen in un limbo di non completo appagamento, il che non ha nulla a che vedere con la mancata risoluzione del caso da parte degli inquirenti, bensì nella ruggine dei meccanismi individuali che sfaccettano la vicenda. È pur sempre un esordio e Odar sta già preparando la riscossa grazie ad un bel po’ di dollari: sarà un bene?
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