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Il film “The Truman Show" è del 1998. La profezia apocalittica su cui esso si fonda, quella di un’esistenza interamente virtuale, controllata minuto per minuto da migliaia di telecamere e trasmessa in tutto il mondo, non si è (ancora) realizzata. Ma in quegli anni negli Usa i reality-show erano già diffusi e, da quel momento, il fenomeno si è diffuso in tutto il mondo.
Il film potrebbe avere diverse implicazioni sociologiche, antropologiche, politiche e filosofiche; ma potrebbe anche non averne. Eppure, guardandolo con gli occhi di oggi, è difficile non definirlo “profetico”. Non in senso assoluto, bensì, come dire, in senso parziale.
Nella nostra società avvertiamo una tensione che corre tra due poli: da un lato, una volontà a preservare la nostra “privacy”, continuamente attaccata, violata; dall’altro, la presenza sempre più invadente di occhi esterni, sia sui social network, sia nella vita di tutti i giorni. Quasi tutti nostri atti sono registrati: quando telefoniamo, quando riceviamo un messaggio, quando ci connettiamo a Internet, quando usiamo il bancomat ecc… E poi ci sono i “comuni video sorvegliati”, le telecamere di sorveglianza di banche, grandi magazzini etc.
E poi ci siamo noi. In fondo la distinzione tra realtà e irrealtà non è ancora ben chiara e non lo sarà mai; e la società moderna, sempre più scientifica e tecnologica, non ha fatto altro che ingarbugliare ancora di più la questione. Abbiamo una spiegazione per quasi tutti i fenomeni naturali e sociali, ma non ci basta. Per fortuna. A volte, poi, abbiamo l’impressione di non essere noi stessi, di essere etero - diretti: qualcuno decide cosa dobbiamo comprare, leggere, forse anche pensare. E senza costringerci chiaramente, ma agendo subdolamente. E questo qualcuno chi sarebbe? Non si sa. La società, il mercato, i poteri forti, Belzebù.
Quando Truman (inevitabile pensare all’ironia di chi ha scritto il film, dato che il nome del protagonista è composta dalle parole “true” e “man”) vede davanti a sé la scala che porta all’uscita dal “suo” mondo virtuale, il conduttore dello show gli dice di non farlo, perché in quel mondo costruito, tutto è pianificato, deciso, bello, sicuro. Fuori, invece, nel mondo reale, non ci sono certezze, tutto è instabile, tremendo, vacuo. E incerto. Ma Truman si ribella, perché sin da ragazzo ha deciso di fare l’esploratore. E chi ha creato lo show, ha cercato in tutti i modi di estirpare questa sua inclinazione. Ma non c’è l’ha fatta.
È bello il messaggio: nonostante tutti i tentativi di rendere un uomo controllabile, di prevederne le scelte, i comportamenti (tramite statistiche e sondaggi), esistono ancora dentro di noi alcuni semi di originalità, alcune vocazioni all’autonomia che non sono facilmente cancellabili.
Truman poi agisce da solo. Perché è l’unico essere umano autentico nello spettacolo, giacché gli altri sono attori e comparse. Anche sua moglie non è vera, né il suo migliore amico. È stato abituato a pensare che la sua “Sea Haven” sia una cittadina reale e che esista, di là dal fiume, un’altra città. È come l’uomo che è nato con un paio di lenti azzurre: per lui tutto il mondo sarà azzurro e avrà ragione a sostenere questa idea, perché la sua facoltà percettiva funziona correttamente. Truman, finché non ha il sospetto di essere chiuso in un mondo inventato, sembra felice. Vuole andarsene, ma non sa bene dove, e poi ha paura dell’acqua. È questa paura che ha salvato lo show. Da piccolo, infatti, Truman diceva di voler fare l’esploratore. Così un giorno, mentre è in barca con suo padre, gli sceneggiatori creano una tempesta furiosa (ovviamente anche il tempo è controllato) e il padre (un attore) scivola fuori dall’imbarcazione e muore (per finta). In questo modo gli sceneggiatori credono di aver cancellato dall’animo di Truman la volontà di solcare il mare. In effetti sembra sia così, ma poi Truman supererà quella paura, quando, con la macchina lanciata in velocità, attraverserà il ponte costruito sul fiume che avvolge la sua cittadina. Ecco, in quell’istante lo ammiriamo, perché oltrepassare una paura, anche se irrazionale (anzi, proprio perché irrazionale) è spesso un’impresa.
Il desiderio di viaggiare, di fare l’esploratore non era stato cancellato completamente. E torna prepotente a farsi sentire. Anche se Truman non sa che andarsene per lui vuol dire abbandonare un mondo finto e giungere finalmente nel mondo reale, vero.
Ma cosa significano per lui “vero” e “falso”? Qual è la sua realtà vera? È quella in cui crede di esistere o quella in cui alla fine decide di vivere? Se Truman non avesse cominciato a salire quella scala e non avesse aperto la porta d’uscita per abbandonare lo show, lo avremmo comunque compreso, sebbene con un pizzico di delusione. Forse però ci saremmo sentiti anche un po’ rassicurati, perché non tutti abbiamo un cuore di leone e gli atti di coraggio altrui spesso ci deprimono, perché inconsciamente ci sentiamo spinti a imitarli ma percepiamo che non ne siamo capaci.
Nemmeno chi vive nel mondo reale è certo della verità o falsità di quello che vede o pensa. Truman quantomeno, finché vive nel suo show, percorre un binario unico: il paesaggio attorno a lui è noioso, ma non sbaglierà mai strada. E invece lui sceglie l’incertezza, l’instabilità, il rischio e si getta nel mondo. Quando Truman rompe il velo di Maya, lo show è finito: i tentativi del “creatore” (non è un caso che lui si autodefinisca in questo modo) dello spettacolo, affinché receda dall’idea di abbandonare tutto, sono vani, fiacchi. Se Truman è nato in diretta, non morirà sotto i riflettori.
Ecco, l’essere umano conserva ancora in sé questa capacità di stupirsi e di stupire, questa sorta di seme di originalità che, se coltivato, dà ottimi frutti; ed è un seme tenace: anche se non coltivato, anche se avvelenato con il diserbante, tende a venire lo stesso fuori, come le erbacce che pervicacemente fanno spuntare il loro stelo verde, nonostante si cerchi di estirparle.
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