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Cinema messicano, low (ma non troppo visto il budget presunto su IMDb), cinema che denuncia, (a)storicamente ritrattista e rattristante.
Salta subito al nostro occhio, e non potrebbe essere altrimenti, l’accantonamento dei colori da parte del regista Francisco Vargas, il che pensando a dove è ambientata la storia fa subito ragionare.
Un posto così colorato e vitale come l’America del Sud viene stinto, dicotomizzato, bianco e nero, bene e male. Nello specifico il b/n di El violin (2005) mi ha ricordato le tavole del fumettista Edurado Risso (guarda caso argentino), tavole in cui è la china che grondando delinea i contorni dei personaggi. Anche qui i toni scuri predominano e ciò non può che fungere da campanello d’allarme: niente spiagge assolate, solo violenza e sopraffazione. Cose che, comunque, ci venivano già illustrate nell’incipit.
Aldilà di queste elucubrazioni semantiche sui colori, potrete soddisfare la vostra fame estetica con delle riprese notturne che si inzuppano di lirismo: un fuoco, un bimbo, un vecchio a dorso di mulo, la luna.
Ma da spettatori attenti quali dovete essere avrete notato che il titolo del film è uno strumento musicale. Il violino è attore primario per la vicenda, ma più che l’oggetto in sé, a pesare specificatamente è la musica da esso prodotta. Ancora un contrasto: tra le braccia di Plutarco sprigiona melodie delicate, fra quelle del generale sghembi suonacci. La contrapposizione tra un uomo di pace e un uomo di guerriglia è netta, e di nuovo si annota una certa peculiarità nel sentire delle note così belle in un ambiente così brutto.
Grande empatia con l’anziano protagonista che caracolla per le strade impolverate. Viso seccato dal sole, saggezza, gentilezza, tenerezza. Interpretato da Ángel Tavira, vero musicista messicano dalla mano mozza, per lui la musica finisce nel 2008 a causa di un’infezione alle vie urinarie. Fa in tempo, però, a vincere il premio come miglior attore nella sezione Un Certain Regard di Cannes ’06.
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