Jordan Belford è stato un broker americano che divenne milionario a suon di truffe allo stato ed ai risparmiatori americani. Il film narra della sua rapida ascesa, precedentemente ripercorsa in un libro autobiografico.
Martin Scorsese, dopo il poco convincente “Hugo Cabret”, torna sugli schermi con una storia assurda e per tanto ostica da raccontare. Si capisce ben presto che gli ostacoli vengono superati facilmente dalla crew del glorioso regista americano. Fattori complici sono una sceneggiatura perfettamente collaudata e spesso imprevedibile, come restano imprevedibili i movimenti della macchina da presa che partecipano ad una regia sfarzosa ed autoritaria; e poi ci sono i grandi attori: Jonah Hill diviene spalla perfetta di un Di Caprio in stato di grazia e sopra le righe (questa volta si spera che la nomination non sia solo un’illusione). Il tutto è amalgamato e sostenuto da un incedere ritmico esaltante e da una colonna sonora stravagante che va da Umberto Tozzi alle stupende melodie create a suon di pugni sul petto, come a richiamare l’elemento primitivo e scimmiesco che domina la giungla abitata dagli uomini dell’alta finanza.
Attraverso la storia di uno dei più grandi truffatori d’America, Scorsese porta a galla il marcio del sistema economico americano come microcosmo del disfacimento occidentale che questo stesso sistema ha paradossalmente creato, ma tenendolo in parallelo col punto di vista dell’essere umano e dei suoi difetti. Il Jordan Belfort uomo è metafora del solito, degradato ed illusorio sogno americano, ed il nuovo capolavoro di Scorsese urla a squarciagola: “FUCK YOU U.S.A.”. di Alberto Romagnoli
Diverse le chiavi di lettura per interpretare l'ultimo lavoro di Martin Scorsese. La prima, quella più prosaica, è quella di un'opera realizzata per interposta persona, commissionatagli dal fido DiCaprio, ansioso, pare, di portare sullo schermo la storia di Jordan Belfort, il brooker di Wall Street assurto a massima fama per i favolosi guadagni ottenuti derubando migliaia di risparmiatori americani. La seconda, non necessiariamente in contrasto con la precedente, potrebbe risalire all'interesse del regista intento a costruire un enciclopedia per immagini di alcuni dei momenti più importanti della Storia nazionale. Impresa questa iniziata qualche tempo fa con "Gangs of New York" e poi proseguita nel ritratto di Howard Hughes e dell'america a cavallo tra i '20 ed i '50 in "The Aviator". Ed ancora la possibiltà di lavorare nuovamente con Leonardo di Caprio, icona del suo cinema più recente, ed ambasciatore presso il pubblico in fiore del suo infinito talento. Un connubio che nel corso del tempo ha assottigliato le differenze del sodalizio, a vantaggio del più giovane, ormai vero e proprio motore ispiratore del regista italo americano. In quest'ottica "The Wolf of Wall Street" sembra portare a compimento una fusione a freddo che offre a Di Caprio l'occasione per un one man show di straordinario minutaggio (180') che permette all'attore di sfoderare l'intero repertorio, con un registro espressivo che rispecchiando quello del film oscilla continuamente tra l'orrido ed il divertito, con scene di un certo coraggio per gli standard hollywoodiani - ci riferiamo a quelle che prendono in considerazione gli orifizi propri ed altrui- alternate ad intere sequenze che strizzano l'occhio a Tarantino nelle interminabili discussioni a base di nonsense- ed altre ancora, soprattutto quelle che vedono Jordan Belfort arringare i suoi accoliti, in cui le espressioni della faccia ed il movimento della testa rimandano direttamente al modi da padrino dell'inimitabile De Niro, dei cui personaggi interpretati per Scorsese quello di Belfort, nella sua mancanza di scrupoli, sembra lontano epigono.
Se della speculazione finanziaria e dei suoi misfatti il cinema ha raccontato con dovizia di particolari, “The Wolf of Wall Street”, affonda il dito nella piaga con un referto sociologico in cui i termini tecnici (blue chip, penny stock, IPO) sono le chiavi di lettura per decriptare i riti di una tribù, perché di questa si tratta – basti pensare alla scena più bella del film, quella in cui Belfort ancora recluta viene invitato dal suo capo (John Hanna interpretato da un portentoso Matthew McConaughey) ad intonare il canto di un sorta di Haka con cui l’uomo si prepara alla bagarre- sottomessa al Dio denaro. Il punto però non è tanto quello di non presentare niente di nuovo nell'analisi di quel periodo. Perché se è vero che le tragicomiche avventure dello stranulato protagonista e della sua banda di fedeli servitori accumula un orgia di parole e di situazioni, nulla di quello che vediamo ci aiuta a comprendere l’eccezionalità del personaggio. Una diversità si badi bene, ribadita con forza nell'ultima scena con Belfort separato sia dal punto di vista funzionale che spaziale dal resto della moltitudine, la cui sottomissione è affermata non solo dalla venerazione dello sguardo, ma soprattutto dalla posizione statica e seduta dei "discepoli" rispetto a quella eretta e libera di muoversi del "maestro" in uno dei pochi momenti in cui "The Wolf of Wall Street" riesce a riflettere su come siamo diventati. Se la storia del film esaurisce al primo colpo il passaggio dall'innocenza al peccato, il resto della vicenda è una stratificazione di avvenimenti che si accumulano in superficie, e che stentano ad entrare nella dimensione intima dell’uomo. Tra ripetizioni ed esasperazioni (una tra tutte quella in cui Belfort in preda ad un overdose di Quualude si trascina carponi dentro casa per poi affrontare un imprevisto mortale) “The Wolf of Wall Street”, con l’eccezione dei primi 20 minuti, è deficitario anche sul piano visivo, offrendo il minimo sindacale, nel dualismo tra realtà ed apparenza, giocata sul piano delle immagini con la verosimiglianza dello spot pubblicitario che ci aveva introdotto alla parabola di Belfort, ripreso sul finire ma interrotto dall’entrata in campo della realtà, rappresentata dagli agenti dell’FBI incaricati di arrestare i filibustieri, e di svelare l'arcano confezionato dal lestofante.
di nickoftime