Lo scopo dell’antropologia, osserva Ingold, non è descrivere la specificità delle cose come sono: questo è il compito dell’etnografia. Lo scopo dell’antropologia è piuttosto quello di aprire spazi per un’indagine comparativa generosa, dalle mente aperta ma critica sulla condizione e il potenziale della vita umana. In sostanza, possiamo dire, è filosofia ma, al contrario di quest’ultima, sempre più anemica e astratta, è ancorata nel reale. Purtroppo, lamenta Ingold, l’ambizione speculativa dell’antropologia è stata compromessa dal perverso modello accademico di produzione della conoscenza secondo il quale lezioni apprese tramite l’osservazione e la partecipazione pratica sono trasformate in materiale empirico per la successiva interpretazione. Con questa mossa fatale non solo l’antropologia è collassata in etnografia, ma l’intero rapporto tra conoscere ed essere si è stato rovesciato. Le lezioni della vita diventano ‘dati quantitativi’, da analizzare secondo i termini di un corpo teorico esogeno. Ogni qual volta scienziati sociali dalla mentalità positivista parlano di ‘metodi qualitativi e quantitativi’ – o ancora più osceno, si infuria Ingold – di ‘quant/qual’, e della loro presunta complementarietà, questa inversione si compie. Peggio ancora, consigliano l’osservazione partecipante come strumento appropriato per raccogliere la componente qualitativa del set di dati.
Invece l’osservazione partecipante NON E’ ASSOLUTAMENTE una tecnica di raccolta dati, ma al contrario si inserisce in un impegno ontologico che rende l’idea stessa di raccolta dati impensabile. In breve, l’osservazione partecipante è un modo di conoscere DALL’INTERNO. Citando Barad (2007), Ingold afferma che non otteniamo conoscenza stando fuori al mondo, ma conosciamo perché ‘noi’ APPARTENIAMO al mondo, ne siamo parte nel suo divenire differenziale. Convertendo quello che dobbiamo al mondo in ‘dati’ che abbiamo estratto significa scacciare la conoscenza dall’esistenza, stipulare che la conoscenza deve essere costruita dall’esterno, come un edificio costruito ‘dopo il fatto’ e non esiste come inerente all’abilità di percezione e capacità di giudizio che si sviluppano nel corso di un impegno diretto, pratico e sensorio con il nostro ambiente. E’ questa scelta accademica che, situando l’osservatore al di fuori del mondo che sceglie di conoscere, prepara quello che spesso si presume sia il paradosso dell’osservazione partecipante, che richiederebbe al ricercatore di essere contemporaneamente dentro e fuori dal campo di ricerca allo stesso tempo.
Il fatto è che in ogni raccolta dati, siano quantitativi o qualitativi, si presuppone la divisione tra conoscenza ed esistenza. E’ un fatto che Ingold giudica non etico. Invece bisogna rivolgersi al mondo per quello che ha da insegnarci e respingere la divisione tra raccolta dati e costruzione teorica che soggiace alla normale ricerca scientifica. Come antropologi, afferma Ingold, ci troviamo attualmente in un doppio cieco e si chiede: come possiamo rendere giustizia alla ricchezza etnografica e alla complessità delle altre culture, mentre al contempo ci apriamo all’indagine speculativa radicale sulle potenzialità della vita umana? Un’antropologia che è stata liberata dall’etnografia non sarebbe più legata da un impegno retroattivo alla fedeltà descrittiva. Al contrario, sarebbe libera di portare avanti modi di conoscenza e sensibilità formati attraverso impegni trasformativi con persone da tutto il mondo, sia dentro che fuori il campo di ricerca, verso il compito essenzialmente in prospettiva di aiutare a trovare una via verso un futuro comune a tutti noi. Ma nessuno, avvisa senza mezzi termini Ingold senza cedere un millimetro alle mode new age, orientaliste o neotradizionali, nessuno, né gruppo indigeno, né scienza specializzata, né dottrina o filosofia, tiene già in mano la chiave per il futuro, se solo vogliamo trovarla. Dobbiamo fare il futuro noi stessi. (segue)
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