Tim Ingold procede a esaminare l’arte dell’indagine antropologica e si chiese: qual è il rapporto tra pensare e fare? il teorico e l’artigiano darebbero risposte diverse, osserva. Uno fa attraverso il pensiero e l’altro pensa attraverso l’azione creatrice. Il teorico pensa dentro di sé e solo dopo applica le forme di pensiero alla sostanza del mondo naturale. Il modo di procedere dell’artigiano, invece, è quello di lasciare che la conoscenza cresca dal crogiolo del nostro impegno materiale e dall’osservazione pratica degli esseri e le cose intorno a noi. Quest’ultimo modo di procedere è quello che Ingold chiama L’ARTE DELL’INDAGINE (antropologica).
Nell’arte dell’indagine il pensiero procede con e al contempo risponde al flusso dei materiali con cui lavoriamo. Questi materiali pensano in noi e noi pensiamo attraverso di loro; qui ogni lavoro è un esperimento, non nel senso delle scienze naturali di testare una ipotesi predeterminata o di organizzare un confronto tra idee ‘nella testa’ e fati ‘sul terreno’, ma nel senso di forzare un’apertura e vedere dove porta. Significa stabilire una relazione con il mondo che io chiamerò CORRISPONDENZA. L’antropologia, pensa Ingold, può essere un’arte dell’indagine in questo senso e ne abbiamo bisogno non per accumulare sempre più informazioni sul mondo, ma per meglio corrispondere con esso.
In gran parte, secondo Ingold, coloro che praticano l’arte dell’indagine si trovano non tra gli antropologi ma tra i ranghi degli artisti e questo suggerisce una revisione del rapporto tra arte e antropologia. Questa relazione fa parte di una lunga tradizione di studi antropologici e non vi è ormai area del mondo che non sia stata oggetto di esauriente analisi e interpretazione. Molta letteratura antropologica si sovrappone al quella della cultura materiale e visuale e ne condivide i pregiudizi. Nello studio della cultura materiale il focus preponderante riguarda gli oggetti finiti e quello che accade loro quando vengono intrappolati nelle storie di vita e nell’interazione sociale delle persone che li usano, consumano o conservano come tesori. Nello studio della cultura visuale, il focus riguarda i rapporti tra oggetti, immagini e la loro interpretazione. Quello che va perso, in entrambi i campi di studio, è la creatività dei processi produttivi che portano il manufatto stesso in essere: da un lato le correnti generative dei materiali di cui sono fatti e dall’altro la consapevolezza sensoriale degli artefici. Così i procedimenti del fare sembrano inghiottiti negli oggetti stessi, i processi del vedere nelle immagini viste.
In modo simile a quello dello studio dell’arte, gli antropologi hanno teso a trattare l’opera d’arte come un OGGETTO di analisi etnografica. Come diceva Alfred Gell (1998), non sarebbe possibile tracciare una catena di connessioni causali procedendo a ritroso dall’oggetto finale fino all’intenzione finale che si suppone abbia motivato la sua fabbricazione o il significato da attribuire al’oggetto in questione. in una parola, il posto dell’oggetto in un contesto socio-culturale. Ma così facendo, contraddice Ingold, l’antropologia si è solo limitata a indossare il mantello della storia dell’arte, anche se gli antropologi si sono dati da fare per distanziarsi dalla propensione di molti storici dell’arte a pronunciare giudizi di valore sulla base di criteri ideologici ed etnocentrici. Tuttavia finché gli antropologi insistono nel trattare l’arte come un compendio di opere da analizzare, non esiste la possibilità di una corrispondenza diretta con i processi creativi che hanno dato loro origine.
Ingold sostiene perciò che questo procedimento analitico a ritroso rappresenti un vicolo cieco intellettuale per quel che riguarda il rapporto tra antropologia e arte (in senso lato, dato che al suo interno Ingold analizza una punta bifacciale acheuliana, per esempio). Il problema, afferma, sta nella formula ‘antropologia di’ che va sostituita con quella di ‘antropologia con’. Secondo Ingold praticare un’antropologia con l’arte significa corrispondere con essa nel suo divenire, nel suo movimento di crescita, in una lettura che non va a ritroso della catena operativa, ma in avanti e segue il sentiero verso cui porta. Finora, con qualche notevole eccezione, la collaborazione tra antropologi e artefici è stata scarsa e quando c’è stata, non sempre ha avuto successo. Il problema, secondo Ingold, sta ancora una volta nell’identificazione dell’antropologia con l’etnografia. Le stesse ragioni che rendono l’arte fortemente compatibile con l’antropologia sono le stesse che la rendono incompatibile con l’etnografia. da un lato il carattere sperimentale, speculativo e aperto della pratica artistica tende a compromettere l’impegno dell’etnografia all’accuratezza descrittiva. dall’altro, l’orientamento temporale retrospettivo dell’etnografia va direttamente contro la prospettiva dinamica dell’impegno dell’osservazione artistica. Così come la pratica artistica differisce dalla storia del’arte nei suoi obiettivi, così l’antropologia qui differisce dal’etnografia. Ed è qui, pensa Ingold, che esiste il reale potenziale per una collaborazione produttiva tra arte e antropologia. Ci siamo già abituati all’idea che i risultati della ricerca antropologica non devono necessariamente essere confinati ai testi scritti, ma possono includere anche fotografie e film. Possono comprendere anche disegni, pitture o sculture? opere di artigianato? composizioni musicali? o persino edifici? E d’altra parte, si chiede provocatoriamente Ingold, le opere d’arte non possono essere considerate come una forma di antropologia, anche se ‘scritta’ con mezzi non verbali?
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