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To be or naught to be. Kurt Vonnegut e Anne Tyler a confronto

Creato il 29 giugno 2013 da Sulromanzo
Autore: Pierfrancesco MatarazzoSab, 29/06/2013 - 11:30

Kurt Vonnegut, Anne Tyler, Webzine Sul RomanzoArticolo pubblicato nella rubrica Voglia di protagonismo nella Webzine Sul Romanzo n. 3/2013, Le tentazioni della cultura.

2BR02B, che letto in inglese suonerebbe come “to be or naught to be”, che subito ci fa pensare allo shakespeariano “to be or not to be”, con la differenza di quel “naught” che spesso gli americani utilizzano per indicare lo “zero”. Naught [nɔːt], ossia nulla, niente. E quindi, traducendo liberamente, si potrebbe osare cambiare l’abusato “essere o non essere” in un “essere o essere nulla, nulli”. Di come si vorrebbe o si dovrebbe essere e di come, invece, si è o si percepisce di essere e della confusione che ruota nella mente umana su questa dicotomia, parleremo in questo numero nella nostra rubrica Voglia di protagonismo e lo faremo, come di consueto, mettendo a confronto due personaggi che più “naught” non potrebbero sentirsi, perché diversi da quello che gli altri si aspetterebbero da loro e soprattutto confusi su quello che dovrebbero aspettarsi da se stessi.

Mi riferisco a Barnaby Gaitlin protagonista del romanzo di Anne Tyler Patchwork Planet (Alfred A. Knopf editore, New York, 1998) ed Eliot Rosewater, protagonista del romanzo di Kurt Vonnegut God bless you, Mr Rosewater or Pearls Before Swine (Holt, Rinehart and Winston, 1965).

Barnaby sta per compiere trent’anni all’inizio del romanzo, una persona amante dei triti modi di dire penserebbe che ha “tutta la vita davanti”, eppure lui non fa piani, non osa neanche esprimere i suoi desideri. Cerca, con scarso successo, di orientarsi in una vita che non ha mai sentito sua, galleggiando tra un pesante divorzio nato da un matrimonio troppo leggero, una figlia con cui non sa interagire, preferendo spesso fuggire, ma soprattutto una grandinata di domande che picchiettano la sua mente, obbligandolo a scavare, continuamente, solo per dimostrare che ogni suo gesto o intenzione non è altro che un’ulteriore conferma del suo essere diverso, sbagliato, nullo, rispetto a tutti gli altri, a cominciare dai suoi genitori. I Gaitlin senior, a capo di una fondazione benefica che li impegna e costringe ad aiutare gli altri, amano apparire perfetti e realizzati. Si tramandano anche una curiosa tradizione familiare: ogni maschio Gaitlin, a un certo punto della sua vita, incontra un angelo (rigorosamente donna), che cambierà per sempre la sua vita, in meglio, è ovvio.

Barnaby il suo angelo non l’ha ancora trovato ed è stanco di aspettare; per questo, un giorno, deciderà di averlo incontrato e permetterà a un estraneo di entrare nella sua vita, iniziando un percorso in se stesso che lo porterà a sentirsi meno “naught”, sebbene mai paragonabile agli altri esseri umani. Anne Tyler narra l’intera vicenda in prima persona, ponendo l’io narrante esclusivamente sulle spalle, anzi nella testa del protagonista, riuscendo a sfogliare le menti dei suoi personaggi come una cipolla, strato dopo strato, senza fermare la penna nemmeno davanti a quelli più indifesi e interni, a quelli dove sono aggrappate tutte le loro paure. La vista di Barnaby sul mondo diventa l’unica possibile, l’unica vera. Questo permette al lettore d’immedesimarsi con estrema facilità nelle “scelte-non scelte” del protagonista, nelle sue continue indecisioni, nelle sue paure, nelle sue repentine certezze, in cui si tuffa senza voler pensare alle conseguenze, per poi pentirsene, prima ancora di aver potuto goderne l’ebbrezza; nel suo sentirsi sbagliato in un mondo nel quale, come lui stesso ci dice: «Tutti sembravano così fedeli a se stessi.». Un mondo dove si infrangono tutte le domande di Barnaby fondendosi in una sola, sempre la stessa: «Quello che volevo sapere era: le persone non possono cambiare? Devono per forza rassegnarsi a restare come sono dalla culla alla tomba?».

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