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Se ti piace guarda anche: un anime porno
Sbrighiamo le pratiche obbligatorie, quelle da recensori diligenti: Norwegian Wood è l’adattamento cinematografico del romanzo omonimo del giapponese Haruki Murakami pubblicato nel 1987, uscito in Italia e da noi molto apprezzato con il titolo di Tokyo Blues. L’editore nostrano probabilmente ha voluto andare sul sicuro, visto che se no con un titolo come Norwegian Wood noi poveri italiani idioti l’avremmo confuso per un’opera nordica quando invece è nipponica e ci sarebbe andato in pappa il cervello!
E se dicendo pappa vi è venuto fame, non significa che siete italiani idioti, ma solo italiani affamati. Il titolo Norwegian Wood è tratto dalla celebre canzone “Norwegian Wood (This bird has flown)” dei più o meno celebri Beatles, visto che a quanto pare Murakami ha dichiarato che mentre scriveva il suo libro avrà ascoltato sul suo walkman (gente, l’iPod era ancora ben lontano dall’essere inventato) Sgt. Pepper's Lonely Hearts Club Band. Che non si capisce bene cosa c’entri, visto che Norwegian Wood è contenuta su Rubber Soul…
Ah Murakami, ripigliati!
Abbiamo sbrigato l’introduzione specificando tutto quel che c’era da specificare? Credo di sì e allora passiamo oltre. Passiamo al film vero e proprio. Ambientata alla fine degli anni ‘60, la storia racconta di Tōru, il protagonista nonché voce narrante, di Naoko e di Kizuki. Naoko sta insieme a Kizuku, il miglior amico di Tōru. Dal quadretto dovete però togliere subito Kizuku, che a inizio film si suicida. Sconvolto dalla morte dell’amico (anche se i giapponesi sono bravi a celare i propri sentimenti, quindi non è che si veda molto che sia sconvolto), Tōru si trasferisce a Tokyo e conduce una vita piuttosto anonima tra università e lavoro, fino a che non reincontra Naoko, la ex del suo amico suicida, e con lei inizia una storia parecchio travagliata. Lei è infatti rimasta traumatizzata ancor di più dalla morte di Kizuki (sebbene pure lei da buona giapponese non lo dia un granché a vedere) e quindi viene ricoverata in una struttura psichiatrica (e lì un po' lo darà a vedere, di essere sconvolta e soprattutto pazza). Ogni tanto Tōru va a trovarla, se la tromba, però nel frattempo comincia a frequentare anche un’altra giovane fanciulla e allo stesso tempo ha pure un’attrazione particolare nei confronti di una tizia che lavora nel “manicomio”. E insomma, io credevo di trovarmi di fronte a un drammone, e in alcune parti in effetti è così, e invece il film si trasforma in una sorta di soft-porno in cui ci sono un sacco di scene di sesso e si parla un sacco di sesso. In una maniera tra l’altro che rischia spesso di scivolare nell’involontariamente comico, tanto che a un certo punto mi sono chiesto se non avessi per caso scaricato la versione parodistica dei sottotitoli. Non so voi, ma non conoscendo una parola di giapponese a parte arigatò non posso avere la certezza assoluta che i sottotitoli fossero effettivamente quelli seri, però visto l’andamento erotico (ma purtroppo niente tettone come negli anime più sporcaccioni...) delle immagini, credo fossero quelli giusti.
Se nelle prime scene la mia impressione era stata quella del: “Che carucci che sono i giapponesi! Sono come dei pupazzi morbidosi che vorrei stringere forte forte.” Poi è passata a un quasi scandalizzato: “Che bei porcellini che sono, questi giapponesi!” Il film passa invece da momenti molto drammatici e melò con un sacco di lacrime (ma quanto piange, ‘sta fontana di Naoko?), ad altri più erotici, affrontando tematiche piuttosto scomode e scivolose come pazzia, suicidio e sesso senza amore. Sul versante della pazzia in particolare si sarebbe potuto fare molto di più, magari accentuando le visioni di Naoko anziché farla sempre piagne, mentre la storia preferisce concentrarsi sulla girandola sentimental-sessuale del confuso protagonista Tōru, coadiuvato nelle sue conquiste dall’amico playboy. Del tutto sullo sfondo rimane invece il contesto sociale e il ’68 giapponese. La spiegazione ce la dà un dialogo tra alcuni studenti in protesta e un professore di letteratura:
“Nel mondo contemporaneo ci sono problemi più seri della tragedia greca!” “Non penso che esistano problemi più importanti della tragedia greca.”
In questo caso, potremmo allora dire che non esistono problemi più importanti della tragedia nipponica, peccato che il film tra una scopata e l’altra riesca a farci intravedere appena una parte di questa tragedia. Da un punto di vista visivo, gli anni ’60 dipinti dal regista Tran Anh Hung ammaliano e il suo bel fascino aggiuntivo la pellicola lo guadagna con l’ottima colonna sonora in parte composta direttamente e in parte assemblata da Jonny Greenwood, uno che una volta potevamo definire “il chitarrista dei Radiohead” ma oggi sarebbe limitante (anche considerando come le chitarre le abbiano usate poco nell’ultima decade) e quindi definiamolo “il manipolatore sonoro dei Radiohead”. Oltre alle sue enfatiche musiche originali, Greenwood fa sfilare alcune canzoni dei Can, gruppo krautrock tedesco formatosi negli anni ’60 ma ben lontano dal classico suono anni ’60, lasciando la beatlesiana Norwegian Wood ai titoli di coda. C’è il sesso, c’è la follia, c’è il tormento esistenziale, c’è la musica di Jonny Greenwood, c’è un ottimo cast (occhio in particolare alla giovane rivelazione Kiko Mizuhara), c’è alle spalle un romanzo cult, eppure sembra che ci sia qualcosa di troppo. I giapponesi se la cavano meglio quando sono più essenziali, come con il sushi e gli haiku. Che qui abbiano invece esagerato? (voto 5,5/10)
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