Magazine Cinema
Canada, 2013
98 minuti
Tom, parte da Montreal alla volta della campagna canadese per partecipare al funerale di Guillame, il suo grande amore. Arrivato alla fattoria dei famigliari, viene accolto dalla madre del defunto, da sempre all'oscuro della sua omosessualità. Al contrario, Francis, fratello violento ed omofobico di Guillame, è a perfetta conoscenza dei fatti e non perde un attimo di tempo a minacciare Tom, imponedogli prepotentemente il silenzio sulla sua reale natura, e sulla relazione avuta con il fratello...
Se c'è una cosa che trovo interessante, più ancora della propensione di certi film di genere a tendere verso una linea autoriale, è l'inverso, ovvero quand'è il film d'autore ad incanalarsi nei rami (o nelle spighe di grano, in questo caso) del genere. Naturalmente, sempre se tale operazione venga eseguita con tutte le dovute cautele, onde evitare poi di assistere a veri e propri "nubifragi" (cogliendo l'attimo, non posso che pensare a uno che prometteva, come Darren Aronofsky, purtroppo) con il rischio d'incrementare maggiormente un cinema di cui, francamente, non se ne sente più il bisogno. A ogni modo, questa sembra essere una direzione che negli ultimi tempi ritroviamo abbastanza di frequente; facendo un rapido esempio, certamente positivo, basta dare un'occhiata al trailer (il film spero arrivi presto) di How to Disappear Completely (visibile qui), di un autore eclettico quale Raya Martin che attraversando per così dire, i generi, ha saputo al contrario di altri, riformularsi egregiamente ad ogni sua opera. Da questa prospettiva, anche Xavier Dolan, l'enfant-prodige del nuovo cinema canadese, con Tom à la Ferme sembra ora intenzionato a percorrere la suddetta strada in maniera intelligente e lo fa, decidendo di addentrarsi nei più tortuosi sentieri del thriller psicologico, rivisitandone magistralmente tutto un apparato che deriva dai classici del genere. Non solo a partire dalle influenze prettamente hitchcockiane (vedasi la sequenza della doccia) comprese di una colonna sonora rievocativa*, ma dimostrando anche di saper gestire al meglio i vari momenti di pathos (tre, i punti salienti) enfatizzandoli tra l'altro con tocchi di spiccata originalità quali la graduale trasformazione del formato aspetto, che ne aumenta così la resa claustrofobica.
Quali vedute poi possano prospettarsi in futuro, è ancora presto per dirlo, bisognerà attendere Mommy, il lavoro che verrà presentato a Cannes. Ma intanto, alla sua quarta prova registica (se ancora di prove si può parlare per uno che a soli ventitrè anni, con già all'attivo due opere non indifferenti, presenziava sulla croisette con un film di proporzioni colossali come Laurence Anyways, che ne decretava la piena maturità) il canadese sorprende ancora, confermando ormai di sapersi muovere con eccelsa maestria in qualsiasi territorio, anche quando si avvale (come in questo primo caso) di un adattamento teatrale quale l'omonima opera scritta da Michel Marc Bouchard. La cosa certa, è che ci troviamo di fronte un Dolan dai tratti atipici (addirittura raggelanti, attraverso quella figura diafana, a tratti camaleontica nel suo mimetizzarsi con l'ambiente circostante), che muta inaspettatamente epidermide (perchè interiormente, continua pur sempre con distinzione, a rispecchiarsi nei personaggi che mette in scena), svestendo il suo cinema dagli sfavillanti cromatismi pop che finora ne avevano gloriosamente segnato l'ascesa, a favore di uno stile più asciutto e rigoroso. L'ebefrenia degli "amori immaginari" è solo un ricordo lontano, ma anche la complessa ricerca di se stessi, di quella sintonia con il proprio corpo, sembra essere ormai giunta a compimento trovando una sua dimensione stabile con il Melvin Popaud (chiaramente il suo alter-ego) del succitato Laurence Anyways. L'impressione è quella di un primo ciclo che si chiude, e al canadese non resta che dirigersi alla scoperta di spazi da lui ancora inesplorati. E Tom à la Ferme restringe la visuale su questi spazi; si presenta come un film che in qualche modo recide (letteralmente) con i precedenti stilemi, segnando una linea di demarcazione già evidente dall'inizio, con quella carrellata che sorvola le piantagioni di mais scisse dalla strada che Tom percorre in auto, in direzione delle dismesse e uggiose zone rurali del Quebec. Una provincia che, come nella miglior tradizione horror di stampo rurale, custodisce al suo interno i segreti più oscuri ed inviolabili, ben attenta a difendersi dalle possibili intrusioni esterne. Ancor più grave, se come in questo caso, per il villain della situazione (Francis) l'intruso (Tom) si presenta come un cancro da estirpare (l'omosessualità), facendosi incarnazione delle proprie fosche ossessioni. A tal proposito emerge un parallellismo caratteriale interessante tra i due; entrambi innalzano a propria difesa una sorta di barriera di facciata, atta ad impedire lo svelamento delle reali pulsioni l'uno verso l'altro. E' opportuno infatti notare, come la rabbia di Francis cresca in realtà da un'ostinata condizione che si è imposto per evitare un dolore alla madre, ma che non riesce più a reprimere dal momento in cui realizza che la sua "attraente preda" sta per sfuggirgli (l'estenuante inseguimento nella radura, che anticipa l'epilogo). D'altro canto anche Tom, nonostante le continue prepotenze subite, sembra accomodarsi a tale situazione in ricordo dell'amore vissuto, convincendosi di poterne magari vivificare le emozioni attraverso l'immersione in quell'ambiente agreste, e finendo quasi con l'assuefarsi al lavoro alla fattoria; al dolore dei polsi tagliati; alle sofferenze di un vitello morente. Sarà l'illuminante dialogo con il gestore di un bar, a risvegliare Tom dal torbido sonno in cui stava sprofondando. Le cicatrici restano, ma ora, i contorni dei volti "fantasma" di quella provincia appaiono oltremodo più chiari.
*Il commento sonoro curato da Gabriel Yared, inizialmente non doveva esserci. La prima stesura del film infatti, prevedeva l'assenza di musiche a favore dei suoni dell'ambiente naturale.
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