Fughe, torture, amore, esecuzioni. Lui e lei si amano, ma il cattivo e prepotente barone Scarpia vuole separarli perché si è invaghito di Tosca e pretende di aggiungerla alla sua personale collezione di donne. Se non sapessimo che si tratta di una delle opere liriche più amate dal pubblico, potremmo facilmente confonderla con il canovaccio di un romanzo d’amore, di un feuilleton ottocentesco in cui la trama intricata conduce inevitabilmente al tragico scioglimento. “Tosca” di Giacomo Puccini è tutto questo, ma è anche uso sofisticato dell’orchestra, personaggi indagati nelle loro sfumature psicologiche, arditezza delle soluzioni sonore che, specialmente in personaggi come Scarpia, rievocano atmosfere suggestive che sembrano anticipare stilemi tipici dell’espressionismo musicale. Ispirato all’allora famoso pezzo teatrale francese “La Tosca”, scritto da Victorien Sardou, l’opera narra la storia d’amore tra la cantante Floria Tosca e il pittore Mario Cavaradossi. I due amanti sono contrastati dal barone Scarpia che, scoperto che Cavaradossi ha dato ospitalità all’evaso Angelotti, lo arresta e poi lo tortura con l’intento, neanche troppo celato, di combattere un nemico e allo stesso tempo di arrivare alla sua donna. La battaglia di Marengo fa da sfondo all’azione e ne sottolinea l’alternarsi dei momenti. Quasi tutto il primo atto ruota attorno alla preparazione del Te Deum finale, cantato come ringraziamento per la presunta vittoria annunciata dal dispaccio di Melas; nel secondo atto, durante la tortura di Cavaradossi arriva la notizia della definitiva sconfitta degli austriaci, che segna l’acme dell’azione scenica e prelude al triste finale. Come in ogni storia d’amore contrastata che si rispetti, la passione tra Tosca e Cavaradossi è segnata sin dall’inizio da una vena tragica, che non svanisce neanche quando le previsioni per i due amanti sembrano farsi più rosee. Resta sempre nello spettatore il sospetto che l’evoluzione della trama non possa risolversi in un finale lieto, né quando Tosca uccide il barone, né quando trova il salvacondotto, e perfino quando sorride a Cavaradossi e lo istruisce sulla finta esecuzione a cui sarà sottoposto.
I nostri timori di spettatori non sono infondati e l’esecuzione infatti non sarà una finzione: Cavaradossi muore sotto i colpi dei fucili. Tosca, distrutta dal dolore, si lancia dai bastioni di Castel Sant’Angelo e pone fine alla sua vita e all’opera lirica. Agli spettatori resta il fiato sospeso mentre ritorna in mente l’aria più bella della protagonista dell’opera, quel «Vissi d’arte, vissi d’amore» che sul finale si trasforma in un testamento di Tosca, un congedo dalla vita e dalle passioni che l’hanno animata. “Tosca” del Teatro Massimo Bellini è uno spettacolo soddisfacente da tutti i punti di vista. L’allestimento scenico richiama con efficacia le diverse ambientazioni dell’opera. Al centro del palco il cancello della chiesa di Sant’Andrea della Valle con l’altare e il pavimento di marmo, che nel secondo atto si trasforma nello spoglio ambiente di una sala di Palazzo Farnese, teatro delle intimidazioni a Tosca, delle torture di Cavaradossi e dell’uccisione del barone Scarpia, per poi dare spazio ai desolati bastioni di Castel Sant’Angelo, luogo dell’esecuzione di Cavaradossi e del suicidio di Tosca. Lo spettacolo resta ancorato al solco della rappresentazione tradizionale, come nella scelta degli abiti della protagonista, di quel rosso e nero che si alternano a sottolineare i diversi momenti della trama. Scelte non originali, ma certamente azzecate, che dimostrano come il regista Giovanni Anfuso sia riuscito a trovare un giusto equilibrio nell’allestimento di una delle opere più rappresentate al mondo, rinvigorendo la bellezza del teatro pucciniano senza eccedere nel trovare soluzioni interpretative che indugiando sull’originalità, rischiano di stravolgerlo.
Solida, vibrante, ricca di profonde sfumature emotive la voce del soprano Celia Costea, che recita una Tosca appassionata, rimarcandone con il canto la natura di testarda e gelosa, ma anche di fragile, dolce e remissiva donna innamorata. Riesce bene anche il tenore Rubens Pelizzari nel ruolo di un Cavaradossi innamorato ma coraggioso, disposto a rischiare la vita per perseguire il suo ideale politico, il suo odio contro la tirannide. Profonda la sua interpretazione della romanza “E lucevan le stelle”, la cui melodia torna in forma breve nelle battute finali dell’opera, quando Tosca si getta dai bastioni del castello. Eccellente l’interpretazione di Carmelo Corrado Caruso nel ruolo del barone Scarpia, lungamente applaudito dal pubblico. Merito certamente dell’artista che dimostra di possedere un’ impeccabile tecnica e una grande capacità espressiva; ma risultato anche della scrittura di Puccini che è riuscito a costruire un ruolo gigantesco, seppure in negativo, attorno al registro di baritono che generalmente è assai trascurato, facendo invece diventare un personaggio sgradevole il fulcro di tutta l’opera. Molto buona anche la prestazione dell’Orchestra e del Coro del Teatro Massimo Bellini, diretti rispettivamente da Giuliano Carella e Tiziana Carlini. L’angoscia, la passione, la paura, le false promesse: tutti questi ingredienti fanno della “Tosca” una delle opere più apprezzate del teatro pucciniano, che a ben guardare è semplicemente una storia d’amore che con la sua dinamica parla dritto al cuore. Non c’è spazio per la ragione, per la riflessione o per l’analisi. O si ama o si odia, o si vive o si muore: nessuna via di mezzo è concessa. Così Tosca, come sottolineato dal regista Giovanni Anfuso, ci restituisce l’immagine di eroi che poi così tanto eroi non sono, che piuttosto sono uomini costretti dagli eventi a subire le situazioni che li vedono protagonisti. E mentre i due innamorati cercano di aggirare invano il loro destino di morte, noi riflettiamo su come sia difficile ricostruire le macerie dell’anima, e ricordiamo la fragilità dell’uomo e la forza dirompente dell’amore.
Fotografie di Giacomo Orlando per il Teatro Massimo Bellini di Catania