Alla vigilia della tappa forse più dura del Tour mi sembra giusto riconoscere i meriti di Alberto Contador. Quanto ha fatto vedere nelle ultime due tappe ha rivelato un corridore di grande classe (questo si sapeva) e grande cuore. In pochi avrebbero scommesso sulla sua rinascita, dopo la caduta e dopo il successo al Giro d’Italia. Fare la “doppietta” non è un esercizio da tutti. L’ultimo a riuscirci è stato Marco Pantani e prima di lui personaggi che hanno vinto Tour a manciate (a parte Roche, nel 1987, quando vinse anche il Campionato del Mondo per poi sparire ). La contestazione del pubblico, la caduta e le tappe pirenaiche avevano consegnato un corridore in difficoltà, incredibilmente dietro rispetto agli altri. E’ bastato un giorno di riposo e l’aria delle Alpi per far tornare la voglia di correre ad Alberto. Ma perché questo omaggio “preventivo”? Prima di tutto perché il mestiere del giornalista sportivo è sempre facile: osannare i vincitori e trovare il motivo di una sconfitta per i perdenti. Fare le cose “postume”, almeno per il sottoscritto che non ha obblighi se non quello di dire cosa pensa sul proprio blog, non ce ne sono. Pertanto mi sembra corretto sbilanciarmi in una previsione: Alberto Contador ha già vinto il suo Tour. Perché ha mostrato l’umiltà degli ultimi, lui che ultimo non è, riconquistando sul campo la simpatia dei tifosi. Parlando con colleghi e appassionati in questi giorni ho sentito: “Però, che corridore!”. Alcuni si sono allargati oltre: “Mi ricorda Pantani”.
Cos’è che ha permesso allo spagnolo di riconquistare posizioni nel cuore dei tifosi (oltre che nella classifica generale)? I suoi attacchi, ripetuti, fortemente voluti, forse disperati e magari senza tanti risultati rispetto alla fatica. Ma attacchi che hanno ricordato un modo diverso di vincere il Tour. Nel ciclismo moderno, sfigurato e trasformato da Armstrong, ci siamo abituati al “tutto scontato”. Se guardate a quanto accaduto nei grandi giri degli ultimi anni, troverete sempre vincitori “telefonati”, che per primeggiare non hanno fatto altro che attendere la consunzione lenta e inesorabile degli avversari. Armstrong, Basso, Menchov, lo stesso Contador, si sono imposti con andature regolari, conquistando margine in salita e a cronometro, a prescindere dagli avversari e dalle caratteristiche tecniche. Erano i più forti della corsa e hanno atteso (anche quando attaccavano) che la “pera” cadesse nel cesto. Al punto che la critica, ad ogni corsa, esaltava il leader che attaccava e mortificava gli avversari, sempre sulle ruote.
Non è così in questo Tour. Se dovessi dire chi è più forte, non saprei proprio. Forse Evans (il più regolare), forse il più grande degli Schlek (perché Andi non lo vedo bene), forse lo stesso Contador, forse Basso. Però l’unico che attacca è lo spagnolo. Attaccare in discesa quando si è forti in salita è un po’ come usare i piedi in una partita di rugby. Si può fare, ma è segno di grande cuore e soprattutto di una ferrea volontà di successo. Lo faceva Pantani, soprattutto all’inizio. Prima di lui lo faceva Chiappucci, ma non era il più forte e di fronte aveva uno come Indurain. Lo ha fatto Contador, dopo aver attaccato anche su una salita che non faceva paura. A dimostrazione che ha cuore, oltreché classe. Al di là della famosa bistecca che si è mangiato al Tour dello scorso anno, Alberto ha dimostrato di avere coraggio e voglia di soffrire, ben oltre la propria forza e nonostante gli avversari. Questa è l’essenza del ciclismo. Altri suoi colleghi hanno dimenticato, ma i tifosi l’hanno capito e Contador ha già vinto.
Antonio Ungaro
Magazine Sport
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