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Tra caos afghano e “rivoluzioni”: una rondine araba non farà la primavera russa

Creato il 11 luglio 2012 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR
Tra caos afghano e “rivoluzioni”: una rondine araba non farà la primavera russa

Nel momento in cui si sta accelerando il ritiro delle truppe occidentali dal pantano afghano, che fa seguito alle deflagrazioni “rivoluzionarie” nel Vicino Oriente, non può che destare preoccupazione l’avvenire del cuore del Mondo Antico, l’Eurasia, da sempre terreno di scontro nei rapporti di forza tra le grandi potenze e divenuta un’autentica polveriera geopolitica dalla fine della guerra fredda. La recente evoluzione dei fatti internazionali è effettivamente gravida di incertezze per la stabilità politica dello spazio eurasiatico. A grandi linee, tale evoluzione è sospinta da due decisivi propulsori esogeni: le crisi arabe e il caos afghano, aventi entrambi implicazioni di rilievo sui grandi equilibri regionali. Nella misura in cui seguirà una logica “orientata” dalle grandi potenze, nell’ambito di un’implacabile lotta d’influenza mirante al controllo degli Stati strategici della regione – i “pivot geopolitici” di Brzezinski – questa situazione evolverà in una destabilizzazione programmatica dello scacchiere eurasiatico. Con annessi enormi danni collaterali.

Tendenzialmente, questa duplice evoluzione è la conseguenza di una strategia incosciente e suicida di frammentazione dello spazio politico russo, che nella rappresentazione tradizionale dei dirigenti della Federazione si estende all’ex spazio sovietico. Ancora adesso, proseguendo in una sorta di surrealtà ideologica che domina il mondo irrazionale dell’ignoranza diffusa, l’Occidente sembra non averlo compreso. Deplorevole errore.

Lo spazio eurasiatico resta infatti l’avamposto geopolitico di Mosca e l’asse strutturale della sua politica estera, oltre che la leva della sua legittimità internazionale, recentemente riaffermata dal nuovo orientamento del Presidente Vladimir Putin. In modo ufficiale Mosca considera l’impatto diretto e indiretto della radicalizzazione delle “rivoluzioni” arabe – da cui deriva la rinascita di Al Qaeda nel Maghreb e più recentemente anche in Siria – come una minaccia per i propri interessi nazionali. Secondo la nuova dottrina di sicurezza russa, in tali interessi è compresa la stabilità della Comunità degli Stati Indipendenti, che rappresenta una sorta di Unione Sovietica de-ideologizzata, costituita dalle ex repubbliche dell’URSS e considerata da Mosca una zona di potenziale intervento, una linea rossa da non oltrepassare. L’Occidente è avvertito.

Nella visione strategica di lungo termine della Russia post-sovietica, sostenuta da Vladimir Putin a partire dalla revisione del concetto di difesa nazionale nel 2000, la radicalizzazione della “primavera araba” costituisce il vettore d’ascesa di una “minaccia islamista” – ossia, nella terminologia russa, proveniente dall’Islam radicale e portatrice di un’ideologia alternativa. Vale la pena rammentare succintamente la percezione russa di questa “nuova minaccia”.

Il disimpegno americano dall’Afghanistan, eliminando un tampone di sicurezza di vitale importanza, rappresenta un’autentica trappola geopolitica per la Russia e per il suo Estero Vicino. Nel tempo, il ritiro apparente – e nei fatti solo parziale – riproporrà con maggiore acutezza la questione della legittimità d’una presenza americana nella regione centroasiatica, tenuto conto che il Presidente Obama ne ha confermato il mantenimento in forme certo diverse ma comunque poggianti su una presenza politico-militare più o meno ufficiale, tramite una coorte di “consiglieri” e le numerose “basi”. È proprio questo ciò che Mosca contesta apertamente, leggendovi una strategia di insediamento permanente nel proprio avamposto che rimette in discussione le prerogative storiche che la Federazione Russa ha ereditato dall’Unione Sovietica. In piena aderenza all’analisi brzezinskiana, la partita strategica prosegue dunque sullo scacchiere eurasiatico a causa della decisione americana di “abbandonare” l’Afghanistan che avrà, alla fine, un triplice impatto sulla Russia. In ciò, tale decisione sottende una funzione latente, politicamente orientata e soprattutto mirante a contrastare gli interessi russi.

In primo luogo, il ritiro programmato aumenterà la diffusione della droga, favorendo la nascita di nuove strutture informali e nuove reti “politico-narcotiche” all’interno della CSI, senza dubbio con la complicità di potenze ostili obiettivamente interessate alla frammentazione politica della Russia. Attualmente la Russia critica l’inefficacia – forse voluta? – della politica antidroga condotta dal tandem NATO-USA in Afghanistan, che penalizza in primo luogo la zona d’influenza russa. Ciò spinge i dirigenti russi a sospettare l’amministrazione americana di atteggiamenti ambigui nel contrasto al traffico di droga, nonché di una strumentalizzazione politica di tale problema, che Putin ha definito la “narco-minaccia”. Sullo scacchiere eurasiatico tutti i colpi sono ammessi.

In seguito, tale ritiro favorirà l’infiltrazione di forze estremiste e terroriste nelle zone conflittuali dell’ex impero sovietico, che soffre allo stesso tempo di un controllo carente e di una perdita di legittimità dello Stato centrale russo. Quest’ultima è aggravata dalla combinazione di due elementi: 1) da una parte, l’azione politicamente non neutra di alcune istituzioni straniere, con le rivendicazioni “democratiche” delle organizzazioni multilaterali e delle ONG, autentici motori delle recenti “rivoluzioni colorate” o delle “rivoluzioni internet”, fondate sulla manipolazione dell’informazione ed il cui obiettivo finale è il rovesciamento di regimi ostili a vantaggio di altri più “malleabili”; 2) d’altra parte, la politica occidentale del soft power, che mira ad allontanare la periferia post-sovietica dalla dipendenza russa attraverso una strategia di partenariato con gli Stati della CSI. A questa politica vanno ricondotti il “vicinato diviso” promosso dall’Unione Europea e l’integrazione di ex repubbliche sovietiche nelle operazioni della NATO nel quadro di un “Partenariato per la Pace”. L’obiettivo ultimo è quello di integrare nelle strutture NATO quelle repubbliche desiderose di emanciparsi dal “grande fratello” russo e di indebolire così il potere regionale della Federazione Russa. Spiacevole e inutile provocazione.

Infine, il ritiro incoraggerà l’espansione di un nazionalismo religioso e identitario – rinforzato anche dalla situazione araba – nelle zone etnicamente sensibili e a maggioranza musulmana dello spazio russo: Caucaso, Urali, Asia Centrale. È ciò che negli anni Sessanta Daniel Bell, nel libro The End of Ideology, aveva giustamente definito come i germi di “micronazionalismo” e che nel 1978 Hélène Carrère d’Encausse divulgherà con il suo L’Empire éclaté. In fin dei conti, una conseguenza paradossale della scomparsa dell’Unione Sovietica e della delegittimazione del comunismo è stata la sostituzione della religione all’ideologia come fattore di identità in grado di catalizzare l’emancipazione dei popoli – se non addirittura come elemento strumentalizzato dall’amministrazione USA per la difesa della propria leadership in Eurasia. Questa politicizzazione della religione, favorita dal declino dell’ideologia comunista, è un fattore esplicativo e strutturale della “Primavera araba”. E rappresenta pertanto un’autentica bomba geopolitica a scoppio ritardato.

Fondamentalmente provocata da questo duplice choc esogeno arabo-afghano, l’involuzione etno-religiosa rischia di indebolire la zona di dominio russo e la sua cintura periferica politicamente fragile, energeticamente ricca e dunque strategicamente importante. Nel solco della “linea Brzezinski”, questa involuzione avrà come principale conseguenza di impelagare la Russia post-sovietica in una serie di micro-conflitti periferici, spossanti dal punto di vista economico e destabilizzanti da quello politico. In questo senso essa si presenta come la minaccia più temibile non solo agli interessi della Russia, ma anche a quelli dell’Europa, che vive una forte dipendenza energetica da Mosca e che potrebbe subire un’impennata di prezzi degli idrocarburi. Incoraggiando, con il beneplacito della signora Ashton, la radicalizzazione “democratico-islamista” sullo scacchiere arabo (che di rimbalzo arriva nella periferia post-sovietica) e magari provocando “rivoluzioni colorate” per ridurre l’influenza russa in nome di alti valori morali, la virtuosa Europa con il sostegno americano si dà la zappa sui piedi. Con il rischio di scatenare ben presto dei processi incontrollabili e in fin dei conti di destabilizzare tutta l’Eurasia post-comunista.

Dinanzi a questa crescente pressione internazionale, la Duma russa ha appena costituito una Commissione incaricata di prevenire e neutralizzare le “rivoluzioni colorate”. Allo stesso tempo, come alternativa politica al riavvicinamento con l’Occidente (la cui condotta è percepita come estremamente ambigua) e per compensare il “vuoto strategico” derivante dal ritiro dall’Afghanistan (recepito come una forma di egoismo irresponsabile), la Russia incentiva lo sviluppo di una struttura di sicurezza eurasiatica attraverso un aumento di peso della OCS, che passa per il consolidamento dell’intesa russo-cinese e l’allargamento ad altre potenze regionali emergenti come l’India. Il 5 giugno 2012, in occasione della sua visita in Cina, Putin ed il suo omologo cinese Hu Jintao hanno insistito sulla necessità di rinforzare il partenariato strategico al fine di garantire una sicurezza regionale minacciata dall’impasse afghano e, in ultima istanza, di controbilanciare la forza della NATO. Un segnale chiaro, a mo’ di avvertimento, poco prima dell’incontro con Obama al vertice G-20 di Los Cabos, in Messico (18-19 giugno). Un sistema di sicurezza nel cuore dell’Eurasia.

Indebolendo il dominio russo in una zona nevralgica che è fonte di incertezze per l’Europa, i focolai di instabilità in Asia centrale e Vicino Oriente – generati dalle derive caotiche arabo-afghane – costituiscono dunque un autentico vettore di disordine per lo spazio post-sovietico e, in un senso più ampio, per il continente eurasiatico. Obiettivamente tali derive rappresentano un potenziale detonatore di conflitti, e in ultima analisi di riorganizzazione dei rapporti di forza internazionali aventi come sfida ultima e implicita il controllo della governance mondiale.

In questo braccio di ferro fra potenze rivali, il ruolo strategico e politicamente decisivo della Siria nella regione spiega la chiusura della posizione russa attuale. Ormai, a costo di opporsi frontalmente alla coalizione di interessi arabo-occidentali, Mosca non può più indietreggiare e vuole fare della Siria un simbolo del proprio ritorno sulla scena internazionale come affermazione del riequilibrio multipolare nella governance mondiale, appoggiandosi all’ONU. Questo atteggiamento della Russia è motivato dal rifiuto di ogni proseguimento dello “scenario libico” di islamizzazione della regione, da ottenersi con l’aiuto (involontario?) della NATO e con una sapiente strategia di disinformazione già sperimentata in Afghanistan, in Iraq, nell’ex Jugoslavia e persino nelle ex repubbliche sovietiche. È in gioco la nuova credibilità internazionale della Russia, faticosamente ricostruita da Putin dall’inizio degli anni 2000, oltre che la sua stessa identità post-sovietica.

Lungi dal fare la primavera russa, una rondine araba potrebbe generare un “inverno afghano” dalle tinte islamiste, particolarmente temuto dall’erede dell’URSS perché risorto dai meandri della Guerra Fredda con il fantasma di Brzezinski e le preoccupanti manovre americane. Mosca non ha infatti dimenticato la “trappola di Kabul” del dicembre 1979, preparata dall’amministrazione democratica Carter per dare anche all’Armata rossa la sua “guerra del Vietnam” e destabilizzare il potere russo, con le conseguenze che sono ben note a tutti. Trent’anni più tardi, con la complicità occidentale, la trappola afghana rischia di chiudersi ancora sulla Russia post-sovietica. Terribile maledizione.

Nel cuore della grande scacchiera eurasiatico, la “guerra tiepida” sembra, ormai, ineluttabile1.

(Traduzione dal francese di Dario Citati)


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