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Tra cinema e cavalli: Intervista a Marcello Avallone

Creato il 17 gennaio 2014 da Fascinationcinema

marcello avalloneIl cinema del brivido secondo Marcello Avallone si dipana in tre film: il thriller Un gioco per Eveline (1971) e i due horror Spettri (1987) e Maya (1989). Un gioco per Eveline (scritto proprio così, non con la “y” – dettaglio importante nella vicenda) costituisce l’esordio alla regia di Avallone, che firma un giallo (para)psicologico elegante con Erna Schϋrer (alias Emma Constantino, volto noto del cinema di genere italiano) e Marco Guglielmi. Il film è di un certo valore soprattutto per il suo carattere atipico: richiama in parte i gialli erotici lenziani in stile Orgasmo, per intenderci, ma prende poi una strada tutta sua. Ci sono due coppie in una casa sul mare, una ospitante l’altra ospitata: i due coniugi che vi abitano sono in crisi, il marito sostiene che la loro figlia Eveline è morta, la moglie crede invece che sia tenuta segregata da lui. Fatto sta che la bambina appare di notte all’ospite, mentre gioca con una palla bianca: complotto per far impazzire qualcuno? Allucinazioni? Fantasmi? La spiegazione sconfina in un finale surreale e metafisico che lascia aperte varie ipotesi. Pur soffrendo di qualche lentezza, Un gioco per Eveline è un buon thriller che sfocia nel dramma psicologico; da brividi le apparizioni della bambina, accompagnate da una risata sottile e inquietante.

Dopo 16 anni, Avallone torna ad occuparsi del soprannaturale (questa volta tout-court) con il dittico Spettri e Maya, completamente diversi dal primo ma molto simili fra loro. Se Eveline aveva un gusto estetico e narrativo squisitamente anni Settanta, questi due horror sono decisamente figli del periodo in cui nascono. Era il periodo in cui le televisioni stavano prendendo il sopravvento sul cinema, e non a caso i due film sono prodotti da Reteitalia (la stessa della serie Brivido Giallo di Lamberto Bava). All’epoca, Avallone era un regista abbastanza quotato, a tal punto che Lucio Fulci – in un’intervista del 1987 – ne parla come di uno registi della nuova generazione horror insieme a Michele Soavi. Appassionato del genere (in passato aiuto regista di Freda), viene chiamato a dirigere Spettri. Il film è ispirato chiaramente al modello Inferno di Dario Argento, con il male che si scatena in maniera imprevedibile e nei modi più disparati, senza una necessaria concatenazione logica. La vicenda si svolge a Roma, dove un gruppo di archeologi guidati dal dottor Lasky (Donald Pleasence) scopre un’antica tomba romana in cui si consumavano sacrifici umani: incauti degli avvertimenti, profanano il sepolcro liberando le forze del male. Non si può dire che Spettri sia un brutto film, perché visivamente Avallone  riesce a creare atmosfere suggestive e bei giochi di luce. Gli effetti speciali sono affidati a Sergio Stivaletti. Il problema fondamentale, oltre ai personaggi stereotipati,  è probabilmente nella sceneggiatura, che arranca e fa fatica a entrare nel vivo (per buona parte del film, i demoni si manifestano solo con folate di vento e ombre misteriose), dando al film un senso di eccessiva lentezza. Che è un po’ il problema anche del successivo Maya. Questa volta, Avallone può disporre di un budget più ampio e gira il film in Venezuela, contaminando l’horror col cinema avventuroso che andava di moda in quegli anni in Italia – spesso su imitazione dei modelli americani come Indiana Jones. La vicenda è più o meno simile alla precedente: l’archeologo Slivak (William Berger), mentre sta studiando una piramide e un’antica leggenda maya, rimane vittima di una maledizione che risveglia il male e causa una serie di morti misteriose. Come in Spettri, le suggestive location e un certo gusto creativo nella regia trasformano Maya in un discreto prodotto d’intrattenimento. Qui c’è anche un maggiore dinamismo nella vicenda, per cui possiamo dire che Avallone ha compiuto un passo in avanti: nonostante il copione preveda ampio spazio per i soliti personaggi e la sceneggiatura non sia perfetta, i demoni maya entrano subito in azione, uccidendo nei modi più orribili e singolari. Pochi ma buoni, pure in questo caso, gli effetti speciali (a cura di Prestopino e Castagni), anche se la sequenza più impressionante è la performance di un uomo che vomita serpenti. Peccato che l’unione tra Avallone e il genere sia durata solo tre film.  Davide Comotti

 

L’ho vista di recente nel documentario I Tarantiniani, che è stato presentato al Festival del Cinema di Roma…

Diamoci del tu. Si, io non ci sono andato e manco l’ho visto il documentario, com’è?

A me non ha entusiasmato onestamente. Gli aneddoti sono simpatici e interessanti, ma intitolare un documentario I Tarantiniani, ora come ora, è anacronistico…

Si, infatti, è limitativo…sono d’accordo. Io manco lo sapevo come l’avrebbero usata quell’intervista. Che poi l’ha prodotto Maurizio Tedesco ‘sto documentario, che, vabbè, quegli anni lì li ha vissuti un po’ di ritorno, ma con cui ho fatto due o tre film. Due sicuro, di horror.

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Maurizio Tedesco (a destra) insieme a Steve della Casa

Partiamo appunto con il genere con cui ti si associa di più. Come nasce l’idea di addentrarsi nell’horror?

Allora, io mi trovavo negli Stati Uniti a fare un documentario sul nuovo cinema americano…

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In che anni siamo?

Gli anni ottanta… ti dico pure l’anno esatto… era… era proprio il 1980. Mi trovavo lì perché la Zoetrope, la casa di produzione di Francis Ford Coppola, insieme alla società di Marina Cervi, che rappresentava la RAI, produceva questo documentario sul nuovo cinema americano. Mentre facevo questo lavoro mi sono proprio immerso nell’aria che si respirava lì e capii quanto piaceva sto cinema, diciamo horror, anche se non so se da noi si può realmente chiamare horror. Per alcuni lo era, per altri era qualcosa di un po’ diverso, diciamo cinema ‘di paura’… Capii quanto questo cinema avesse, in America, un impatto forte, quanto piaceva. All’epoca quasi tutti gli horror che si facevano là erano di serie B, ma non in senso dispregiativo, eh. Lo sai bene anche tu, che con serie B si intendono quei film fatti con budget ridotti, per un certo tipo di circuito, con un certo tipo di distribuzione. Quindi, tornai in Italia con l’idea in testa di fare un horror. Passano alcuni anni e mi trovai a proporre a Tedesco un progetto. “Ce se pò provà.” gli faccio. Lui mi dice de si, e io e Andrea Purgatori ci mettiamo a scrivere la sceneggiatura di Spettri (1987). Poi, avemmo la fortuna di incrociare la nascente Fininvest, che si stava affacciando al mercato, che all’epoca era ancora un mercato libero. Il film ebbe un sacco di successo, e dopo ne feci un altro, Maya (1989), che andò benino, meno bene comunque di Spettri, anche perché da noi il fenomeno, il picco horror, durò molto poco.

Ecco, infatti non stupisce che questi due film nascano, in qualche modo, da un viaggio negli USA, perché sembrano essere molto di stampo americano, anche nella regia. Ma facciamo un passo indietro. Tu sei riconosciuto come regista horror: come ti rapportavi al genere, da spettatore, nei decenni precedenti?

Allora, io amavo e amo – oggi molto meno – il cinema americano. Ce so’ cresciuto. Che poi è sempre un cinema di genere, anche se poi si chiama, che so, Il promontorio della paura, rimane un film di genere. Non hanno questo cinema togato, intellettuale – bellissimo eh, sul quale non c’è niente da discutere, se non caso per caso – ma non soffre di morbi che, invece, noi abbiamo. Ti faccio questa premessa: il cinema italiano è stato fortemente influenzato da una letteratura, la nostra, che è sempre stata di matrice fortemente verista, che poi è stata amplificata dalla guerra, dalla fame, dalla povertà, dalla rinascita. Quindi, la critica ha sempre avuto questo criterio nel giudicare i film. Quando abbiamo iniziato a fare questo cinema qui, che prima degli anni ottanta avevano già fatto altri – Riccardo Freda, Mario Bava – la critica si sentiva slittata da problemi veri a problemi finti. Che poi era anche vero, diciamo, ma in Italia non si è mai dato il giusto peso alla favola. E gli horror non sono questo? Quindi da spettatore ti dico che a me le favole piacciono.

Da una parte sembriamo sempre “crociani”, nel senso di Benedetto Croce, per cui abbiamo questa esigenza di etichettare tutto – il basso e l’alto, il sacro e il profano – ma, poi, pare che la critica, agganciandomi a quello che stavi dicendo, abbia cercato di applicare gli insegnamenti del Cahieur du Cinema senza averci capito ‘na mazza.

Ma lascia perdere! C’ho avuto delle discussioni pazzesche con Callisto Cosulich. Io l’ho sempre, amichevolmente, accusato di non aver fatto nulla per aiutare il cinema d’intrattenimento a decollare. Uno dei problemi è stato che la mano usata per giudicare i film è sempre stata la stessa, lo stesso sguardo, la stessa penna, gli stessi standard. È come se io uso lo stesso metro per giudicare un libro -che so – di un grande autore e i libri della Harmony. Ma so’ due cose diverse.

Non pensi che chi faceva il cosiddetto cinema impegnato godesse anche di una tutela – passami il termine – politica…

Assolutamente! Quei film avevano quasi sempre dei fini politici e sociali, alcuni raggiunti, altri no, e i soldi tirati fuori da ‘sti film venivano riversati in territori squisitamente politici ed economici.

Si può dire che chi faceva un certo tipo di film godeva quasi di una protezione, di matrice sindacale, quando voi eravate…

Noi eravamo lasciati a noi stessi! Certo! Bastonati come gli scemi del villaggio. Poi, qualcuno era scemo già di suo, ma ce n’erano pure tanti dall’altra parte. Ma, poi, ci hai mai fatto caso che, se non in rarissimi casi, tutti questi registi che facevano cinema alto non si sono mai cimentati in un film più di genere? Erano costretti sempre a cercare quello che un tempo si chiamava “messaggio”, perché erano protetti da una critica politicizzata. In America non è cosi, non è il genere a determinare la bravura di un regista. Uno si può misurare con il genere, e, se lo fa ad alto livello, viene considerato un grande regista; se poi fa trash si giudica per quello che è.

Torniamo a parlare della tua carriera. Tu inizi come attore.

Vabbè, ma ho fatto poca roba…

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Ma nel ’57 prendi parte a Poveri ma belli di Dino Risi. Come finisci su questi set così giovane? E, poi, a quanti film prendi parte in questo periodo come attore?

Ma manco lo so. L’unico che è rimasto è ‘sto Poveri ma belli. Queste partecipazioni nascono così – io ero ragazzo, avevo diciassette, diciott’ anni – e d’estate era una maniera per fare qualche soldo in più. Io abitavo in zona Flaminio, e avevo accanto una Titanus, degli uffici enormi della Titanus, in una zona che adesso si chiama Vigna Clara. D’estate andavamo ai cancelli, che poi non erano cancelli, ma insomma si stava lì in zona. Noi eravamo ragazzi un po’ più ricchetti, quindi ci prendevano per fare le scene di festa, -no?- tutti vestiti di bianco, un po’ più fighettini. Così ho fatto diverse cosette. Poi, Risi cercava dei ragazzi per, appunto, Poveri ma belli, e io fui scelto insieme ad altri tre/quattro giovani. Ma io da subito volevo andare dall’altra parte della macchina da presa, fare l’assistente, il segretario d’edizione. Ecco. E qui entra in gioco una cosa che non c’entra niente con il cinema, che è il mondo dei cavalli. Mio padre aveva una scuderia da corsa, e io sono cresciuto respirando cavalli dalla mattina alla sera. All’epoca – adesso non lo so più, ma non credo – cinema e cavalli erano unitissimi, andavano insieme. Molti produttori, DeLaurentiis per esempio – non Dino, il fratello – molti tecnici, distributori, tanti attori erano appassionati di cavalli. C’era una vera passione. In questa galassia di appassionati c’era anche un regista molto amico di mio padre, Riccardo Freda, e un giorno mio padre gli fa: “Ma perché non te lo porti appresso Marcello?” Io ero ragazzetto, lui era quest’uomo grande, avanti negli anni. Mi fa: “Va bene, alcune cose te le insegno.” Era un figlio de puttana eh (ride). Siccome sapevo guidare molto bene i cavalli e lui aveva una cavalla di nome Zimbala – pensa, ancora mi ricordo il nome – mi disse: “Però tu tieni Zimbala in giro per un’ora. Dato che è una cavalla nervosa ha bisogno di correre e di un tocco delicato. Mi fai ‘sta cosa tutti i giorni.” È stato un padre per me.

Che persona era Freda? Si dice che fosse molto cinico rispetto al suo lavoro.

Si, lo era. Mi hai nominato tutti cinici. Risi era un cinico pauroso, Freda pure, poi Monicelli, che abitava qua vicino, pure. Erano uomini freddi, distaccati… ma forse bisogna esserlo per non diventare vittime di una materia. Tenevano la giusta distanza. Freda, forse, lo era di più. A lui piaceva mettere l’attenzione su altre cose: il gioco, le corse…era un gran viveur. Poi, vabbè, s’è magnato e giocato tutto.

 

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Riccardo Freda

Su quali film ha fatto l’assistente di Freda?

Dunque, io ho fatto con lui Maciste all’inferno (1962), Le sette spade del vendicatore (1961); poi ho fatto…oddio…quello per cui andammo anche a Bracciano…L’orribile segreto del Dr Hichcock (1962). Ecco, si. Quando sono stato in America e ho detto cha avevo lavorato su quel film non puoi capi’ che è successo. Sono impazziti. Lì è un mito, un culto.

Cosa ricordi di questo film?

(ride) Molte cose. Pensa che è stato tutto girato in tre settimane. Niente eh, incredibile. L’abbiamo girato in una villa, che si chiama Villa Perucchetti, che sta ai Parioli, a Via Monti Parioli. Adesso è una scuola e ci stanno le suore. Il primo aiuto era, mi pare, Giovanni Fago su quel film. Ci siamo poi suddivisi in tre unità. Una era mia: ho girato delle cosine, dettagli, raccordini, fregnacce così. Tutto in tre settimane. C’è anche da dire che Freda era bravissimo e sempre preparato, e che poi degli attori non gliene fregava un cazzo.

Forse all’epoca ce lo si poteva anche permettere.

Eh, adesso no…

Qualche aneddoto sulla Barbara Steele?

Era sempre in ritardo. Un giorno il produttore, litigandoci per l’ennesimo ritardo tremendo, le diede uno schiaffo. Piange, urla e se ne va. Riccardo, che era d’accordo con il produttore – del resto lei era brava, bella, anche simpatica, ma una rompicazzo notevole – fa: “Sta scena la giriamo senza di lei.” “Come senza?” “Si, la fai tu.” Dato che io all’epoca ero molto magro, mi hanno vestito con gli abiti di Barbara Steele e ho fatto tutta una scena in campo lungo, con una grazia un po’ frocesca (ride). Quindi, pensa quanto gliene poteva fregare a Riccardo degli attori. Poi, pensa, a lei, l’ho rincontrata vent’anni dopo in America, e stava facendo produzione.

Quindi in questo periodo fai i due peplum e il Dr Hichcock. Correggimi se sbaglio, ma tu, poco dopo, a metà degli anni sessanta, inizi ad avvicinarti al documentario.

In quel periodo iniziarono le prima avvisaglie di una crisi che poi si è protratta per decenni fino ad ora, che non è più una crisi, non so manco che è. Comunque, in quel momento decollava la televisione. Premessa: io sono sempre stato appassionato di sport, qualsiasi sport, ancora adesso, se corrono due topi, io sto lì. All’epoca c’era una rubrica sportiva chiamata Sprint di Maurizio Barendson e Antonio Ghirelli, e iniziai a frequentare i bar della televisione. Ora per entrare ci vogliono cinque pass, ma allora entravi senza problemi, chiacchieravi con chiunque. Barendson un giorno mi fa: “Guagliò – era un napoletano di quelli veraci – ma tu che cazzo ci fai qua?” “Cerco lavoro.” “Che sai fare?” “Son un aiuto regista.” “Portami un’idea.” Pensai subito che l’unica che cosa che gli potevo portare, in cui ero il più bravo di tutti, erano i cavalli. Andai da Riccardo (Freda n.d.r). “Che gli posso porta’ a questi? Deve essere qualcosa sui cavalli.” Lui ebbe un’idea: la ferratura dei cavalli da corsa. Cosa su cui non sa un cazzo nessuno, ed è fondamentale. Il lavoro dei maniscalchi che operano come orologiai sulle zampe dei cavalli è una cosa bella. Da qui, poi, è nata la mia attività di documentarista, prima in maniera giornalistica diciamo, e poi cambiando nel tempo. Attività che ho portato avanti fino ad un paio d’anni fa.

In che anno inizia esattamente?

Sarà stato il 1965, ’66.

Però quello è un periodo in cui imperavano tanti generi, in primis il western…

Ne ho fatto uno con Giovanni Fago, che era il regista (il suo debutto alla regia n.d.r) Per 100.000 dollari t’ammazzo (1968), con Claudio Camaso. Questo è stato l’ultimo film d’assistente e aiuto, poi si è dedicato solo alla televisione.

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Tu, però, dirigi il tuo primo film nel 1969, L’altra faccia del peccato. Una sorta di mondo movie…

Si, è uscito nel 1969 e lo abbiamo girato l’anno prima. È stato il mio primo film da regista. Io avevo fatto un reportage d’inchiesta sugli ospedali, e mi chiamò Luciano Martino, che è morto recentemente. Io già lo conoscevo, dato che ci vedevamo a scuola. Non eravamo nella stessa classe, lui è più grande di me. Infatti ero più amico del fratello Sergio. Insomma, Luciano mi chiamò, dopo aver visto questo mio speciale sugli ospedali, e mi disse che gli era piaciuto molto e aveva bisogno di una mano come quella, perché voleva fare un film-documentario nel mondo. Poco prima era uscito un film di Luigi Scattini (Svezia-Inferno e paradiso n.d.r) che era andato benissimo, e ancora prima ne era uscito un altro, orrendo, tedesco, ma ‘na cosa tremenda, che, però, aveva fatto cifre pazzesche. Il pubblico era curioso. Era uscito un libro di Altavilla tutto sui vizi e sulle virtù degli europei. “Lo vuoi fa’?” mi chiede Martino. “Si, certo.” Ecco, prendendo spunti dal libro, insieme a Giacinto Ciaccio, abbiamo selezionato tutti i fenomeni che reputavamo più interessati. Abbiamo girato con macchina a mano, e io davo pochissime indicazioni all’operatore, buttavo in mezzo due o tre persone nel tentativo di far esplodere la scena. La voce narrante del film è dello stesso che aveva fatto i film di Jacopetti. Che tra l’altro era un genio. Io l’ho conosciuto ed era veramente un genio. Tutto quello che vedevi nei suoi film era pensato e preparato. Tutto.

Come andò il tuo film?

Benissimo, tant’è che mi richiamò subito dopo Martino chiedendomi di farne un altro. C’era già il titolo: America così nuda, così violenta. Ma dissi di no, volevo fare altro. Poi, quello è il film con cui debuttò il fratello, Sergio.

Poi cosa succede? Negli anni settanta sei poco prolifico.

Si, c’è un buco. Guarda, succede questo: io avevo voglia di fare un cinema un po’ diverso, più fantastico. Scrissi un noir, genere che abbiamo fatto molto poco in Italia, che si chiama Un gioco per Eveline (1971). Fu prodotto, ma non ci credeva nessuno. Era un film difficile, fuori tempo, rivedendolo adesso anche ingenuo. Andò malissimo, fu recensito anche bene, ma il film andò malissimo. Bianchi, un critico dell’epoca, scrisse delle cose bellissime. Io, però, ci rimasi male perché ci credevo tantissimo nel film. Se devo essere sincero, forse, la sceneggiatura non era così ricca rispetto a quello che si cercava di dire, gli attori erano modesti.

Il casting lo facesti tu?

Si, il casting è mio. C’era Marco Guglielmi, che aveva fatto un cinema molto dignitoso, anche delle cose con Sordi; c’era Adriana Bogdan, Erna Schurer, che era un’attrice molto commerciale in quel periodo… poi ci stava un tedesco…Wolfgang Hillinger, che poi è scomparso, che aveva fatto una piccola cosa con Visconti. Comunque, ti dicevo che ci rimasi talmente male da quell’esperienza che decisi di chiudere con il cinema. Mi ributtai nella televisione. Ecco il buco. Non è che chiamai, proposi copioni, incontravo… non feci un cazzo. Facevo televisione, che mi faceva vivere bene, che mi consentiva di fare documentari che mi piacevano…

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…fino al ’76. Anno in cui giri Cugine mie.

Si, poi mi chiamò Amati, il produttore. “Dobbiamo fa’ un filmetto così. Ti va di farlo di corsa?” Da fare in tre settimane. Ci pensai un attimo, mi divertiva molto l’idea di fare un altro film. Poi, a me è sempre piaciuto fare cose diverse. Io stavo facendo reportage e pezzi d’inchieste, anche pesanti, quindi l’idea di fare una cosa di questo genere mi attirava. Ma è ‘na robetta così. Poi mi sono pure detto “al limite neanche lo firmo.” Senza mai abbandonare la televisione, era come prendersi una vacanza di qualche settimana.

Il film come andò?

Cugine mie incassò tantissimo. Il film è ‘na cazzata sconvolgente.

Non l’hai scritto tu, giusto?

No, no macchè…lo scrisse, boh, manco mi ricordo. Mi pare Gianviti, che poi manco sapeva scrivere.

Cosa ricordi del film?

Ricordo una corsa frenetica per finirlo in tempo. Neanche avevo il tempo di andare a fare pipì. Poi, c’erano tre attrici. Una era la donna di un produttore, per cui andava tenuta da conto; una era la moglie di Carlo Vanzina, che era un amico e andava tenuto da conto; un’altra ancora era una che in quel momento faceva un sacco di soldi, che si chiama Franca Gonnella. Uscivo pazzo.

Poi arriva l’horror…

Si, vado in America, dove ho vissuto per circa un anno e faccio questa esperienza con il documentario che ti dicevo.

Come si sviluppa la storia di Spettri?

Si sviluppa, innanzitutto, da delle considerazioni con Maurizio Tedesco sul dove girare il film. Io avevo due città in testa per girare una cosa del genere: Roma e Napoli. Napoli sarebbe stata perfetta, perché ha una doppia faccia. Sopra le serenate, la pizza e il Vesuvio, e sotto ci sono realtà strane e oscure. Roma anche è perfetta, sopra ci sono le chiesette, i vicoli, ma poi ci stanno i sotterranei, cunicoli lunghissimi. Ci sta l’ombra di una Roma antica che non esiste più, tremenda e sanguinaria. Scelto, chiamai Purtogatori, che era uno che veniva dal Corriere della sera, dalla cronaca, a cui interessavano le stesse cose che interessavano a me.

In quanto tempo è stato girato?

Non mi vorrei sbagliare, ma penso in circa nove settimane ed è stato girato in inglese. Spettri è un film concepito soprattutto per il mercato estero.

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Il film andò molto bene.

Benissimo, si. Fai conto che tra Italia e estero ha fatto più di due miliardi.

Cosa pensi del film?

Quando rivedo delle scene mi vergogno, e, adesso, se le dovessi rifare le farei completamente diverse, ma questo è normale. Io lo trovo assolutamente dignitoso e gradevole. Girato anche bene, perché all’americana, molti dettagli, molti tagli. Gli effetti speciali resistono bene considerando che all’epoca tutto veniva fatto in diretta. Ogni cosa che accade deve accadere veramente. Non è proprio facile. Io, comunque, questi film mi divertivo a farli, a inventare la paura. È una voglia infantile se vuoi.

Maya invece è un film narrativamente più ambizioso.

Si, c’erano anche più soldi. Ma sai cosa non funzionava in quel film? L’ambientazione Maya proprio. Per me, almeno, non aveva quel humus fantastico.

Però, a distanza di tempo, è il motivo per cui viene più ricordato.

Lo so… lo so.

Cast particolari in tutti e due.

Si, in Maya c’è anche Antonello Fassari, che era un mio amico. Faceva cose comiche, allora gli chiesi “hai voglia di fare una cosa diversa?”, e lui vene. Poi agli attori piace fare cose sempre diverse, anche strane. Il protagonista era un australiano, Peter Phelps, che aveva fatto poco prima un film bellissimo chiamato Sotto un tetto di stelle; mi innamorai di lui e lo feci chiamare. Poi, c’era Mariella Valentini come protagonista femminile. Tanti attori furono presi lì in Venezuela.

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Quando molti registi si stavano fermando, tu, invece, continuavi a fare film. Negli anni novanta hai fatto anche delle cose piuttosto ambiziose.

Dopo Maya mi chiamò Italo Zingarelli, un grosso produttore, che mi chiese di fare una di quelle cose che faceva lui, ma molti anni prima. Sto parlando di Panama sugar (1990). Io non ci credevo molto, ma il contratto era buono. Il copione, secondo me, era d’altri tempi, già datato in partenza. Era poi un film ad alto budget, che poi andò male nelle sale, ma che sembra essere piaciuto molto. Ancora c’è gente che mi ci chiama per quel film.

Parliamo di Ultimo taglio (1997). Com’è stato gestire John Savage, attore noto per…

Volevo ucciderlo. Un giorno lo stavo per ammazza’. Se non me lo levavano da davanti lo facevo. Ti giuro. Lui era molto infantile, quando faceva le sue isterie, erano quelle dei bambini. Chiediti perché non lavora più neanche in America. Poi l’alcol gli ha bruciato il cervello. Ma, secondo me, lui deve essere sempre stato strano. Si impuntava su delle cose assurde.

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Un esempio?

Io avevo ricostruito sulla spiaggia un cimitero, sulla battigia, con le lapidi semi-sepolte dalla risacca. Come se il mare se lo stesse mangiando lentamente. Era molto bello, suggestivo. In scena c’era solo lui che doveva lanciare la sua pistola verso questo scenario, come gesto di congedo dalla vendetta. La macchina da presa era posizionata in alto per avere un totale. Prima avevamo girato la scena vista dal basso, tutta su di lui, e la pistola che lui lanciava veniva raccolta in una cesta. Per il controcampo dall’alto non poteva buttare la pistola vera, perché l’attrezzista che l’acchiappava con la cesta si sarebbe visto. Per cui vado e chiedo al macchinista di farmi un accrocco che da lontano sembrasse ‘na pistola. Tanto con un campo così lungo, un 32, non si vedeva un cazzo. Arriva John Savage, vede il pezzo di ferro da gettare, e fa “Io con questa non giro.” Gli faccio vedere in macchina che non si sarebbe visto nulla. “Ma io so che è finta.” mi risponde. Quando gli attori fanno cosi è perché ti vogliono prendere per il culo, o per stronzaggine loro. Quando fanno cosi li prenderei a calci in culo. “Che vuol dire, che non puoi buttarla perché sai che è finta? Recita, o non sei un attore capace!” “Ma non pesa quanto una pistola vera.” “La facciamo più pesante.” Niente, si incaponisce. “Io non giro, anzi me ne vado.” “Si, ma te ne devi andare a fanculo. Non servi a niente. Anzi, è finita. Abbiamo finito di girare, te ne puoi andare.” È montato in macchina, sgommando se ne va. Questi erano gli ultimi giorni. Poi è tornato, mica ha chiesto scusa eh, e ha girato la scena. Quindi, vedi, era proprio stronzo, stronzo. Che poi io non lo volevo lui! Mi convinse la moglie di Ridley Scott, con cui Savage aveva fatto poco prima L’Albatros, che mi disse cose molto belle di lui. “Se vuoi lo chiamiamo subito.” e me lo passa al telefono. Mi dice che non beve più, che si è ripulito. Poi, ho capito che in realtà stava cercando di dargli una mano.

Passiamo un attimo in rassegna gli attori americani con cui hai lavorato.

Io i matti me li so’ fatti tutti. Oliver Reed (che recita in Panama sugar n.d.r) è uno che li ha distrutti tutti gli alberghi di Roma. Dall’Excelsior al Residence Ripetta. Con Reed sono andato sempre d’accordo. Helmut Berger è un altro matto, che stava con Savage su Last cut, per cui ce n’avevo due de matti su quel film. Poi ho lavorato con Donald Pleasence (su Spettri n.d.r), che era carino, proprio caruccio. Aveva dieci pose sul film. Sempre puntuale, professionale, e lo sentivi proprio che è uno che aveva fatto tutto, ma tutto. Un inglese vecchio stampo, adorabile, meraviglioso. Neanche con Reed ho mai avuto problemi. Beveva come un ossesso.

Scelta tua?

Mia, mia. Me l’avevano detto che era matto. Ma io con i matti ci vado d’accordo. Ecco, tranne che con Savage, perché non mostrava nessuna umanità. I matti, se li prendi dal lato del cuore, sono recettivi, ma lui, invece, era freddo. Nel senso che era come parlare con un autistico. Che gli voi di’? Anche Fulci con Savage aveva avuto un sacco di problemi (sul film Le porte del silenzio n.d.r) e guarda che Fulci è bravo. Io c’ho pure lavorato con lui.

Su quale film?

Un film di Franchi e Ingrassia….002 Operazione luna. Fulci con gli attori non ci litigava. Era scorbutico, quello si, ma mai quanto Freda. Riccardo non ti parlava proprio più, non ti calcolava minimamente.

Il tuo film preferito tra quelli che hai fatto?

Non ho grandi amori. Oddio, forse…ma no, no. Non ho grandi amori.

 

Intervista a cura di Eugenio Ercolani (Roma-2014)

 


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