“Adesso andava a tirar l’acqua per la zia e io indugiai sulla piazzetta con una improvvisa voglia di breve solitudine, indeciso se scendere a Belbo per fissar l’acqua dei gorghi e veder fino a che punto resistevo alla sua attrazione oppure entrare nel camposanto e girar per le tombe e segnarmi nomi e date: erano tutt’e due fra i miei giochi preferiti solitari” (da “Un giorno di fuoco”, Beppe Fenoglio)
Chiunque si sia avvicinato a quello strano autolesionismo di nome scrittura, avrà sicuramente eletto alcuni scrittori a proprio “modello”. Del resto, in ogni forma d’arte si parte dall’imitazione per produrre qualcosa di nuovo. Velleità artistiche a parte, è normale ritrovarsi nello stile veloce piuttosto che descrittivo di un autore, nei contenuti di un tale che sembra pensarla proprio come noi o la cui adolescenza ricorda da vicino la nostra. Il tempo passa, vecchi esempi vengono sostituiti da nuove scoperte, la nostra sensibilità segue le dinamiche di sviluppo interiore e i modelli cambiano. Qualcosa rimane sempre. Pure io ho i miei modelli: Hemingway per lo stile, Fante per il sarcasmo grottesco, Calvino per la fantasia, Cassola per la semplicità, Fenoglio per tante cose. Chi mi legge saprà che non mi avvicino nemmeno al periodo breve di Hemingway, ho un sarcasmo lontano da Fante e per quanto riguarda Calvino e Cassola non scrivo mai di fantasia né tanto meno semplice. Ecco un paradosso: si può avere modelli e andare in direzione opposta.
Rimarrebbe Fenoglio. Lo conobbi piuttosto tardi, ricordo che lessi quel bellissimo incipit che racchiude in poche righe un evento e allo stesso tempo la delusione per la caducità delle umane passioni: “Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre” (da “I ventitre giorni della città di Alba”). Alba, le langhe, terre povere dove la gente è legata al suolo da radici antiche. Fu così per Pavese, che amò quel paesaggio brullo che gli diede i natali, non fu diversamente per Fenoglio, che gli dedicò la sua intera opera. Impiegato con il vizio del calamaio, uomo di passioni, ma troppo riflessivo per scadere in testa calda. Visse la resistenza con il cuore, ma pure con il cervello. Fu il primo a sdoganarne limiti e contrasti, ma sempre con il rispetto di chi quell’epopea la visse in prima persona e ne capì fin da principio la sacrosanta importanza. Mai banale, non voleva imbrattare carta con inutile inchiostro e cercò la propria originalità nella scelta linguistica, un misto di parole auliche, dialettalismi e frasi inglesi. Non urlava mai parole in maiuscolo, scriveva a bassa voce con lieve trasporto. Scrisse poco, questo si, ma per gli introversi non è più facile spiaccicare parole su carta che nell’aria. Le delusioni e solo quarantuno anni di vita, poi, non lo aiutarono. Aveva un sogno ricorrente molto curioso: essere un soldato dell’esercito di Cromwell. Strana cosa amare una terra e sognarne altre. Oggi ricorreva il cinquantesimo anniversario della morte. Sembrava opportuno dedicargli due righe. Nella consapevolezza che non lo imiterò mai.