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Tra gli angoli dell’alba

Da Fabry2010

di Alfonso Nannariello

IIIIIIIVVVIVIIVIIIIXXXIXIIXIII - XIV

Da noi si iniziò a costruire di fronte al sorgere del sole e della luna. Si costruì sulla porzione di collina tracciata dal loro andare, assecondando la forma e i rilievi dell’altura. Tra gli angoli dell’alba e del tramonto.
Si costruì di fronte a dove spiccano il loro balzo giorno e notte per strofinarne i sensi e attingerne il segreto.

Fu questo il nostro approccio organico alla terra. Quell’uomo sentiva, nella proiezione di quel cielo su quella collina posta tra tre torrenti e un fiume, la sostanza di se stesso, la sua forma innata.
Fu per scoprire la sua immagine che quell’uomo adottò quella terra ancora incolta come suo Eden, come sua madre, come sua materia. Dopo luoghi infidi e cose adultere quell’uomo trovò un punto fermo dove edificare. Dopo essersi spostato di terra in terra scavò le sue case nel tufo eruttato dal Vulture, e con le pietre rotolate dall’Ofanto le chiuse ai lati e fece le facciate.
Fu per vedere le sue proprie sembianze che quell’uomo poi costruì fornaci di mattoni, rossocupi come la sua pelle sotto il sole, e di cementi nuvolosi e grigi.
Casa dopo casa, d’estate e d’inverno, col sole e con la pioggia, venne su un paese. Giorno dopo giorno, anno dopo anno, il paese stabilì e impose la sua immagine.
Terremoto dopo terremoto, frana dopo frana, quell’uomo la rifece, sempre somigliante.
Volumetrie e forme dilatavano, sui righi delle curve di livello, in forme percepibili gli spazi interiori. Sopra quei rilievi, dentro quelle pagine, erano scrittura, voce del silenzio, ritratto di quell’uomo, parola messa fuori.

Condizionate dall’andamento della collina, e col muro del giorno chiuso a settentrione, volumetrie e forme tenevano conto della luce e delle necessità degli spazi interni.
Per lo più ci si accontentava di spazi ridotti, di una sola stanza. Il resto era un ventricolo scavato nella terra, a volte era un’aorta, che non si poteva non fermare a una vertebra lombare.
La stanza era il cuore della casa protetto da una massiccia muratura e, in orizzontale, dal legno della travatura. Non c’erano finestre. Per far uscire il fumo e farla respirare bastava un diaframma, aperto sulla porta.
Sopra, in elevazione, era costruita un’altra abitazione.
Di locali accessori esterni e di finestre si sentì l’esigenza dopo. Fu solo allora che si fecero fusioni catastali. Tra un piano e l’altro, le scale interne fecero di due corpi organi di uno solo.
Quelle architetture a saliscendi, irregolari, con percorsi che da un qualsiasi punto tornavano da altri allo stesso centro, erano luoghi densi e consistenti, proprio come lo spirito che ci percorre dentro.

Così anche casa. Scavata in alcuni punti nella terra, da una porta in alto esce in vicolo san Pietro, da due in basso, tre prima che fosse divisa, in via Concezione.
Casa deve essere stata una di quelle abitazioni fortificate costruite sulla cinta muraria nel ‘500. Me lo ha riferito l’architetto della Soprintendenza BAPPSAE di Av-Sa, il mio compagno di prima elementare, Vito De Nicola, autore di uno studio non ancora pubblicato sulla struttura muraria di Calitri nei secoli. Secondo lui l’entrata da una parte, l’uscita dall’altra, erano per sfuggire a possibili pericoli.
Da qui ancora vedo quello che videro gli uomini di allora. D’estate l’alba tuttora si rigira tra la porpora dell’aria e il dorso del Calvario sul quale ogni giorno il giorno s’incammina. D’inverno, quando la centuria delle temperature basse le strappa le vesti, ha invece una spina di luce che porta nel giorno un astio e un’ingiuria.



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