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“Tra la Roma bene di Vigna Clara e le debolezze della maturità maschile”. Roberto Carvelli su Paese Sera

Creato il 24 marzo 2013 da Andreapomella

Un pezzo di Roberto Carvelli pubblicato su Paese Sera in cui si parla de “La misura del danno”, del liceo Tasso e dei “quartieri diversi che si sfioravano”. Qui l’articolo originale.

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Nel libro La misura del danno (Fernandel) di Andrea Pomella, che si dipana tra la Roma bene di Vigna Clara e le debolezze, un po’ American Beauty, della maturità maschile verso il paradiso di albe dell’adolescenza femminile, compare ad un certo punto il Tasso. Quello stesso istituto salito agli onori della cronaca recente per il ritiro forzoso di tanti studenti. Per noi quarantenni il solo sentirne pronunciare il nome evocava gare tra licei e una pettorina di cui andare fieri, un numero che tagliava il traguardo delle prime scuole romane per l’ambiziosa preparazione della futura classe dirigente.

Il Tasso ha un palmares di tutto rilievo: Veltroni, Andreotti, Gassmann, Verdone, Moravia. Una lista di eccellenze sui banchi e una, altrettanto eccellente, ex cathedra: Roberto Longhi e Giuseppe Petronio su tutti.

Eppure – sign of the time – un papà e una mamma (ancora insieme o magari “liquidamente” separati e per definizione meno compatti nella ricerca di un bene maggiore e a tendere, costruito sui banchi a furia di severità e di ambizione) ai giorni d’oggi sono poco propensi a tollerare educazioni severe e carichi di lavoro. E così ecco le proteste, ecco i ritiri, ecco l’ambizione di una generazione che ha introiettato l’idea che mentre i cervelli sono in fuga rimane solo chi trova strade brevi e risparmiose verso il successo. E allora: perché tanta severità? Perché i votacci? Le ansie da preparazione?

Scrive Pomella (che è debitore della lezione “new romanzo borghese” romano à la Alessandro Piperno): “Al liceo invece nessuno si era preso la libertà di accorciargli il nome. In realtà, la maggior parte delle volte lo chiamavano per cognome, come vuole una vecchia regola inveterata in uso tra compagni di scuola. E così, alle sue orecchie, quel diverso modo in cui veniva chiamato suonava come l’ennesima conferma che fra il vetro a piombo che cingeva la borgata e l’aria vasta e piena di stimoli intellettuali che respirava frequentando il Tasso e i suoi amici che provenivano da zone di Roma di cui per tutta la vita aveva ignorato l’esistenza (Fleming, Trieste, Prati, Parioli, Africano, Coppedé) non poteva esserci nessun punto di Contatto”.

Chi scrive, come l’autore del romanzo, ricorda quell’ambiziosa caccia alle seggiole migliori, la vergogna o l’imbarazzo di non avervi potuto sedere. Sa o ha sentito ripetere quell’imbarazzo con cui quartieri diversi si sfioravano. Distanze che solo la simpatia o il merito potevano abbreviare. Ma la favola finisce qui, e ora. Il racconto s’interrompe sull’urgenza di un tablet le cui pagine si sfogliano con una leggera pressione del polpastrello. E la pagina si volta. Senza neppure il rumore della carta e la fatica del braccio.

ROBERTO CARVELLI


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