di Lorenzo Marinone
Gli scarsi risultati ottenuti dalla recente offensiva contro lo Stato Islamico in Iraq mettono in luce la preoccupante inconsistenza dell’esercito regolare iracheno. Nonostante il supporto aereo garantito dalla coalizione internazionale a guida statunitense e la presenza sul terreno di numerose milizie prevalentemente sciite, le forze di Baghdad hanno dimostrato in più occasioni di essere del tutto impreparate ad affrontare i miliziani del Califfato. L’episodio più recente è avvenuto il 17 maggio, quando la “Golden Division” delle forze speciali irachene, il reparto migliore per addestramento e capacità operativa, è fuggita da Ramadi abbandonando mezzi e armi. L’esercito iracheno stazionava nelle retrovie anche durante la riconquista di Tikrit ad aprile, lasciando combattere in prima linea le Forze di Mobilitazione Popolare (FMP, in arabo Hashd Shabi), milizie sciite appoggiate dalla Forza al-Qods iraniana. Il primo, grande segnale di debolezza del nuovo esercito iracheno, ricostituito sotto la supervisione statunitense dopo il 2003, va individuato nella ritirata da Mosul del giugno 2014, quando due intere divisioni sbandarono di fronte a circa 1.000 miliziani dello Stato Islamico, di fatto aprendo la via alla proclamazione del Califfato.
Le attuali difficoltà dell’esercito iracheno affondano le loro radici in una serie di fattori connessi fra loro che agiscono a livelli differenti. Sul piano militare vi è una drammatica carenza di addestramento e in alcuni casi anche di adeguato equipaggiamento delle truppe. Gli sforzi compiuti durante gli ultimi anni in questa direzione, però, sono stati in gran parte vanificati da un diffuso fenomeno di corruzione. Vi è poi il problema della recrudescenza degli odi e delle diffidenze di natura settaria che contrappone principalmente sunniti e sciiti, cui non è stata data una risposta efficace sul piano politico. L’impronta marcatamente sciita dell’esercito, voluta dall’ex Premier Nouri al-Maliki, è in questo senso uno degli ostacoli più evidenti, in quanto aumenta il rischio di rappresaglie da parte delle truppe schierate nelle regioni a maggioranza sunnita. Anche laddove accordi di natura economica hanno portato a una distensione, come nel caso dei rapporti fra autorità centrali e governo regionale del Kurdistan in merito agli introiti petroliferi, sul piano militare una reale collaborazione sembra ancora lontana: Baghdad esita ad autorizzare l’intervento dei peshmerga a Mosul temendo che la città venga poi rivendicata dalle autorità autonome curde, come già accaduto nel caso di Kirkuk.
Nominato Primo Ministro a settembre 2014, Haider al-Abadi ha subito promesso una riorganizzazione generale dell’esercito. I risultati del suo impegno, però, restano finora quantomeno contrastanti. Al Premier va certamente attribuito il merito di combattere la corruzione dilagante nell’esercito. In particolare, al-Abadi ha portato alla luce il fenomeno dei “soldati fantasma”: circa 50.000 uomini ufficialmente registrati, ma in realtà non in servizio. Si tratta di soldati che consegnano metà dello stipendio ai loro ufficiali per non combattere e si dedicano ad altre attività, oppure di iniziative degli stessi ufficiali, che al licenziamento non fanno seguire la cancellazione del nominativo dalla lista degli effettivi. Un numero davvero elevato, che se confermato interesserebbe almeno un quarto dell’esercito e che va ad aggiungersi alle defezioni avvenute a giugno del 2014. Dopo la caduta di Mosul, lo stesso al-Abadi stimava che l’apparato di sicurezza nazionale (esercito e polizia federale) fosse nei fatti ridotto a non più di 85.000 uomini rispetto ai 400.000 nominali. Nello stesso periodo consiglieri americani giudicavano 5 delle 14 divisioni dell’esercito iracheno impossibilitate a combattere [1].
La risposta di al-Abadi è consistita nell’intensificare i controlli e soprattutto in un ampio ricambio dei vertici delle forze armate. Nei primi due mesi del suo mandato sono stati sostituiti il Comandante delle Forze Terrestri Ali Ghaidan e il Vice Comandante delle Operazioni contro lo Stato Islamico Abboud Qanbar al-Maliki, il Capo di Stato Maggiore Babacar Zekari, i Segretari Generali alla Difesa e agli Interni Ibrahim al-Lani e Adnan al-Asadi, il comandante del Dipartimento di intelligence militare Hatem al-Maksusi, oltre ai comandanti delle operazioni militari sui fronti principali.
Il ricambio ai vertici però non è stato ancora seguito da una generale riorganizzazione della struttura dell’esercito. Una delle cause principali è stata l’incapacità di integrare all’interno delle forze armate sia le milizie sciite ora riunite come FMP, sia i Consigli del Risveglio sunniti dell’Anbar [2]. Il nodo fondamentale è di carattere politico. Durante i suoi mandati Al-Maliki ha apertamente discriminato la componente sunnita del governo, costringendo all’esilio prima il vice Presidente Tariq al-Hashemi e poi il Ministro delle Finanze Rafi al-Issawi, e aveva ulteriormente alimentato il risentimento delle tribù della provincia di Anbar con una dura repressione delle manifestazioni protrattesi per tutto il 2013. Il mandato di al-Abadi sembrava essere iniziato sotto auspici migliori: in poco tempo era stato trovato un accordo politico per la spartizione dei principali dicasteri legati alla sicurezza, con la Difesa affidata al sunnita Khaled al-Obeidi e gli Interni allo sciita Mohammed al-Ghabban.
Tuttavia si registra un crescente scollamento fra i rappresentanti sunniti in seno alle istituzioni centrali e le realtà tribali, in particolare dell’Anbar. Le autorità di Baghdad sono sempre più percepite come ostili, anche a causa dei ritardi nei pagamenti degli stipendi delle forze di sicurezza locali e nell’andamento a singhiozzo dell’addestramento di forze militari su base tribale. Dopo la repressione del 2013, molte tribù hanno appoggiato il nascente Stato Islamico, vedendo in esso un pericolo minore di quello rappresentato da una dominazione sciita. Durante la recente offensiva dello Stato Islamico su Ramadi, Tariq al-Abdullah, il Segretario Generale del Consiglio dell’Anbar (organo di coordinamento dei leader tribali sunniti nella regione), ha nuovamente rifiutato il supporto delle FMP sciite. Alcuni esponenti di secondo piano hanno invece prospettato caute aperture, ma esigendo l’inquadramento delle FMP sotto la regia del Comando Operativo dell’Anbar. La cartina tornasole di questa diffidenza è la scarsa risposta ottenuta finora nella creazione di una forza locale a base tribale, quindi esclusivamente sunnita, impostata di recente dal governo. Se nei mesi passati le tribù che si erano impegnate autonomamente nella lotta allo Stato Islamico erano decine, all’ultima chiamata hanno risposto solo gli Albu Issa, per un totale di appena 1.000 uomini.
La creazione di questa forza locale rientra in una strategia di più ampio respiro, che nelle intenzioni del Premier al-Abadi dovrebbe sfociare in una Guardia Nazionale (GN) organizzata su base provinciale e parallela all’esercito regolare. Sotto questo ombrello si riuscirebbe a inquadrare anche le FMP, limitando così il rischio di una proliferazione incontrollata di milizie. Bisogna però sottolineare che la proposta, a fronte di un’impostazione che ricalca la felice esperienza dei Consigli del Risveglio, presenta zone d’ombra che sollevano pesanti interrogativi circa la praticabilità di questa opzione.
La GN avrebbe il merito di trasporre le divisioni settarie in una struttura sì centralizzata (farebbe capo al Premier in ultima istanza), ma con una larga autonomia organizzativa. In tal modo è probabile che l’omogeneità nel reclutamento, che coinvolgerebbe le tribù locali, disinneschi almeno in parte le tensioni che finora si sono regolarmente presentate. Infatti, ogni reparto avrebbe il controllo della propria provincia, nella quale verrebbe principalmente impiegato. Inoltre è prevista la creazione di alcune unità specializzate in compiti di antiterrorismo che potrebbero venire schierate anche sul resto del territorio nazionale in caso di emergenza. Questa impostazione localistica, nel caso in cui si rivelasse realmente efficiente, potrebbe avere ripercussioni positive anche a livello politico, costituendo un banco di prova per una possibile trasformazione in senso più marcatamente federale dell’assetto istituzionale iracheno.
Tuttavia si prospettano ostacoli di non facile superamento, sia di carattere logistico-organizzativo sia a livello politico. Da un lato l’incombente minaccia rappresentata dallo Stato Islamico riduce notevolmente le tempistiche di reclutamento e addestramento disponibili. Dall’altro Baghdad deve fare i conti non solo con la diffidenza delle tribù sunnite nelle province occidentali, in particolare Anbar e Ninive, ma anche con l’opposizione delle componenti sciite, sia in Parlamento che fra i miliziani raccolti nella FMP. Il loro timore è di creare una forza di opposizione interna all’apparato statale, che grazie all’appoggio di elementi baathisti o jihadisti potrebbe minacciare le autorità centrali e condurre ad un nuovo periodo di scontri settari in tutto il Paese. In questo senso, il ruolo dell’Iran costituisce attualmente una sorta di garanzia per le componenti sciite, che grazie all’appoggio della Forza al-Qods possono di fatto fare a meno dell’intervento di reparti sunniti. A ciò va aggiunta una certa contraddittorietà che il governo centrale percepisce nell’atteggiamento degli Stati Uniti. Se da un lato la richiesta americana è da mesi quella di ricercare una maggior inclusione politica dei sunniti, dall’altro lato la legge sui finanziamenti militari in discussione al Congresso ha sollevato le critiche di Baghdad. Infatti, il testo prevede che gli aiuti vengano consegnati direttamente alle autorità locali (sunnite e curde), senza passare per una procedura centralizzata e quindi sotto il controllo del governo. Infine, la tempistica dell’offensiva contro lo Stato Islamico mette in discussione le reali intenzioni del governo iracheno, in quanto l’operazione è stata lanciata prima che fosse stato fatto un solo passo in avanti nella riorganizzazione militare delle componenti sunnite. Lo stallo attuale era dunque ampiamente prevedibile.
In questo frangente una soluzione prettamente militare alla crisi irachena, con la GN ridotta a mero contenitore vuoto, prospetta il rischio di accentuare o persino legittimare le divisioni settarie. La situazione, a prescindere dall’esito dell’offensiva contro lo Stato Islamico nell’Anbar, può degenerare sia per il riallineamento delle tribù sunnite al Califfato sia in caso di rappresaglie contro la popolazione e i profughi che tentano di riparare nella regione di Baghdad, ormai a maggioranza sciita. Per evitare lo stallo che si è verificato fino ad oggi, la soluzione deve essere trovata principalmente tramite un accordo preliminare fra le parti. Un percorso politico affiancato all’aspetto militare potrebbe funzionare nell’immediato come incentivo in chiave anti-jihadista e nel prossimo futuro come garanzia di non marginalizzazione nelle istituzioni. In questo senso, accostare alla richiesta di una maggiore autonomia militare avanzata dall’Anbar un parallelo percorso di autonomia politica potrebbe spingere i membri del Consiglio tribale della provincia a cercare un confronto più continuativo e proficuo con le istituzioni centrali (sia il blocco di governo dell’Iraqi National Alliance, sia i partiti sunniti a Baghdad). In tal modo, la difesa degli interessi sunniti passerebbe non più da Raqqa ma da Baghdad, sede in cui le componenti sciite avrebbero voce in capitolo e potrebbero contribuire con i necessari contrappesi a salvaguardia dei propri interessi.
* Lorenzo Marinone è Analista di Relazioni Internazionali e OPI Contributor
[1] M. Knights, Bringing Iraq’s ‘Ghost’ Forces Back to Life, in “al-Jazeera English”, December 10, 2014.
[2] I Consigli del Risveglio, creati nel 2006 su impulso del Generale americano Petraeus, consistevano nella creazione di una forza armata la cui base, esclusivamente sunnita e reclutata fra le tribù dell’Anbar, è stata in grado di ridimensionare la minaccia rappresentata da al-Qaeda in Iraq nella regione. Sul piano politico ha rappresentato un primo – benché effimero – riavvicinamento dei sunniti al governo iracheno. I Consigli in quanto formazioni paramilitari si sono sciolti nel corso delle proteste del 2013 nell’Anbar, approfondendo nuovamente la frattura settaria all’interno del Paese.
Photo credits: Reuters/Ako Rasheed
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