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Tra scrittore e lettore, c’è il traduttore

Da Marcofre

Se leggo Tolstoj o Zola lo faccio grazie al lavoro oscuro (magari pure pagato poco e male), di un bravo traduttore.
Per quale ragione ne parlo?

Mentre leggevo il libro “Come scrivere” dell’editore Zelig, ho trovato questo contributo di Milan Kundera. Lo scrittore ceco cita Nabokov che fa notare come in Anna Karenina (edizione russa), nelle prime pagine, il termine “casa” ricorra otto volte in sei righe.
Ma nella traduzione francese il termine compare solo una volta.

Non solo. Spesso Tolstoj scrive: “Disse”, ma il traduttore interviene prontamente sostituendolo con: “Replicò”, “Proferì”, “Esclamò”, eccetera eccetera.

Una volta mi sono cimentato in un’impresa folle: leggere “L’assomoir” di Zola in francese (con accanto l’edizione in italiano, edita se non ricordo male da Rizzoli). Rimasi male notando che mancavano delle frasi; niente di importante, ma era impossibile che si trattasse di un caso, una svista dei tipografi.

In seguito ho scoperto che i gialli di Ellery Queen pubblicati da Mondadori, erano sottoposti a una lieve opera di “scrematura”, ogni volta che compariva una descrizione troppo lunga. Sembra che l’autore di quei libri amasse divagare, ma l’editore italiano usava con discrezione l’ascia per rendere la storia più compatta, affinché restasse dentro il numero di pagine stabilito.

Quando abbiamo a che fare con un Cormac McCarthy, o un DeLillo, leggiamo un libro filtrato dalla sensibilità di un altro autore. Un’opera meritoria, senza la quale ci sarebbe preclusa la possibilità di conoscere tante voci distanti da noi. Ricordiamoci che la loro fortuna passa attraverso il lavoro di un traduttore.


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