Magazine Cinema
Cina, Francia, 2013
89 minuti
Si apre come Light Horizon (2012) questo Gudu, con un'incantevole veduta dagli altipiani nella montuosa regione dello Yunnan (al confine con la Birmania), e si conclude dalle stesse alture e angolazioni, seguendo la giovane protagonista Ying nella sua ascesa fino alla cima, cercando forse di scorgere all'orizzonte gli scorci della civiltà sottostante, dove il padre si reca ordinariamente per lavorare. Lo stesso Gudu, è però uno scorcio; un frammento (come questa breve segnalazione), non solo sulla perdita di un esistenzialismo agreste che va lentamente scomparendo (dieci anni dopo Tie Xi Qu, affiora ancora quella transizione della Cina verso la moderna industrializzazione) ma lo è anche, in quanto costituisce l'estratto di un progetto molto più completo: San Zimei (Three Sisters), il documentario di 153 minuti realizzato l'anno prima e presentato alla 69a Mostra del Cinema di Venezia (qui, la conferenza stampa con il regista), un'opera che rappresenta innanzitutto un'intima osservazione dell'infanzia in condizioni di estrema povertà. Usufruendo di un taglio digitale atto come non mai a restituire all'immagine tutta la sua autenticità, Wang Bing ci fornisce l'immanente ritratto su ciò che resta di una famiglia di contadini cinesi: tre sorelle di età compresa tra i dieci e quattro anni, la cui madre ha abbandonato quelle alture, e il cui unico sostegno arriva dal lavoro del padre, in continuo peregrinaggio verso la città. Isolati in un villaggio a diecimila piedi d'altezza, dove la nebbia sembra non diradarsi mai, avvolgendoli assieme all'ambiente nel loro praticato giornaliero: coltivare l'orto, portare al pascolo gli animali, prendersi cura del nonno, cucinare, dormire. Ma nonostante il peso delle responsabilità (cui obbligatoriamente, deve farsi carico la sorella maggiore, eccetto l'aiuto di alcuni vicinanti) e le enormi difficoltà che una tale condizione di vita comporta, il sorriso, la giocosità e la speranza non svaniscono mai dai volti e dall'animo delle bambine. E sembra non essere un caso, infatti, che Gudu proceda per accumuli, stringendo inizialmente su una condizione esistenziale eremitica, certamente drammatica, ma che a prima vista appare addirittura insostenibile (le tre bambine davanti al fuoco, sembrano lasciate in balia degli eventi) ma che progressivamente, inoltratisi in quegli spazi desertici fino a oltrepassarne i confini, mette chiaramente in luce tutti i contorni (i compaesani, la scuola, il lavoro: per quanto faticosa, una vita, insomma) di quella succitata realtà in perdita, il cui valore, in fin dei conti, andrebbe in parte restituito.
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