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Nel corso degli anni sono stati escogitati metodi e tecniche, più o meno attendibili, per cercare di tradurre ciò che i nostri amici a quattro zampe o altri animali più selvatici vorrebbero esprimere.Ne è un esempio il progetto “No more woof”. Il nome del progetto, tradotto, significa appunto “Non più bau”. I giovani inventori scandinavi dichiarano di aver individuato un metodo di efficace traduzione di pensieri semplici come l’espressione di fame o di stanchezza.A tal proposito è necessario citare uno dei più grandi e ben riusciti scherzi escogitati dal celeberrimo motore di ricerca Google: pubblicizzò un traduttore in grado di interpretare il linguaggio dei cani. Molte persone richiesero di poter acquistare il prodigioso traduttore; purtroppo, però, si trattava solo di una bufala.Più attendibili sono i rifermenti del linguista Noam Chomsky al linguaggio animale seppure, come riporta Gabriele Romanato, i linguisti affermino ce sia improbabile effettuare una traduzione poiché la mente e, di conseguenza ,il linguaggio sono molto più complessi rispetto a quelli di ogni altro essere vivente.
È stato messo a punto un algoritmo per la traduzione del linguaggio dei cetacei; il dispositivo che se ne serve è il prototipo CHAT (Cetacean Hearing and Telemetry) ed è programmato per riconoscere, nei suoni emessi dai delfini, alcuni vocalizzi specifici il cui significato possa essere tradotto con frasi aventi significato per gli umani. Un esperimento simile è stato svolto qualche anno fa Michael Cohen. Il biostatistico all’Università del Wisconsin ha cercato di tradurre il linguaggio dei gibboni dalle guance bianche identificando ben 27 unità di comunicazione diverse nel linguaggio del primate.
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