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Traiettorie impreviste. La parabola di Ehizibue

Creato il 19 febbraio 2016 da Postik @postikitalia

di Gianpaolo D’Elia

Ci sono traiettorie che nella vita non si possono prevedere. Siamo convinti che le cose vadano in un certo modo e … paf! Il destino, il fato o la cattiva sorte … ci mettono lo zampino finale. Tutto cambia, tutto assume una nuova fisionomia e va visto in una nuova prospettiva. Soprattutto, ahimè,  tutto da rifare. “Gli è tutto da rifare”! Così tuonava bonariamente, il volto serissimo e gli occhi beffardi, il vecchio Bartali. Ma la vita, si sa, è quasi sempre imprevedibile (ho scritto quasi? Accidenti! Non l’avevo previsto!). Il calcio no, il calcio è una scienza esatta! Insomma, esatta esatta proprio no … ma abbastanza esatta sì.

Chi è più forte vince; magari non stravince … ma alla fine vince. Come? Se ricordo Italia – Brasile dei mondiali di calcio 1982? Vabbè sì, la classica eccezione che conferma la regola. La finale (incubo) della coppa dei Campioni Amburgo – Juventus? Già dimenticavo … e solo un anno dopo. Giusto ok, va bene così. Magari non vince sempre la squadra più forte ma, santiddio, ci sono aspetti che non sono modificabili, addirittura regolamentati da norme della fisica! Insomma un tiro nel set è e rimane un tiro nel set e là deve andare a finire.

Oppure, non so, se un tiro è diretto verso la traversa là si stamperà e il calciatore che si ritroverà il pallone davanti -a porta vuota- lo farà finire là dove deve: in rete! E neanche questo è vero? E già, un nome su tutti: Kingsley Ehizibue.

Il terzino destro dello Zwolle, durante l’ultimo match del campionato olandese contro il Feyenoord, doveva solo schiacciare in rete di testa un pallone ribattuto dalla traversa dopo un tiro di un compagno di squadra, ma in modo davvero surreale è riuscito a mancare il centro. Il giocatore era lì, da solo e, quando tutti già esultavano, il pallone anziché finire in rete tornava addirittura indietro, per poi trotterellare beffardo verso il fondo.

L’espressione incredula del povero Ehizibue – lui sì che nel frattempo era finito in rete –  la dice tutta sull’incredulità dello stesso calciatore per aver gettato al vento un’occasione d’oro irripetibile. E così, almeno per un giorno, anche il calcio olandese è tornato al centro dell’attenzione dei media.

Certo, per motivi differenti rispetto al passato. L’epoca di Cruyff, Neeskens e del miracolo Ajax è lontana. Eppure, non so perché, mi sento vicino a questo giocatore e, soprattutto, alla sua comprensibile delusione. Anzi no, il perché lo conosco. Perché anche io, nel mio piccolo, mi sento un calciatore. Sì, proprio un calciatore. Ma proprio completo, con tanto di divisa, parastinchi e conchiglia (sono un inguaribile ipocondriaco) per eventuali contrasti più duri. E non sono mica un calciatore qualunque, un dilettante entusiasta che si diverta nella partitella con gli amici. Io, care lettrici e lettori, sono un calciatore professionista. Ho all’attivo almeno una decina di campionati di serie A e due finali di Champions League. Il mondiale di calcio, poi, è stata la ciliegina sulla torta della mia folgorante carriera. Ho segnato e fatto segnare.

Con le mie giocate e i miei lanci illumino il centrocampo; i miei dribbling sono imprevedibili e i miei scatti brucianti! Certo! Nella mia mente, ovvio. Sì, perché quando io gioco io sono proprio tutto questo: un fuoriclasse. Quando gioco so benissimo come andranno le cose; so bene che con un paio di dribbling stretti ed un’accelerata supererò il mio diretto avversario; il mio tiro, appunto, finirà là, dove io ho deciso: rasoterra alla destra del portiere … sempre nella mia testa, ovvio! In quell’istante preciso che separa il pallone dal mio piede o dalla mia testa, in quel momento sospeso in cui il tempo si ferma e tutto, davvero tutto, può accadere … io sono un fuoriclasse, un campione! Nella mia testa io sono Messi, nulla può convincermi del contrario. Ma – poiché mi hanno detto che il tempo e lo spazio sono in realtà la stessa cosa – un secondo ed un metro dopo io cesso di essere tutto ciò che sino a quel momento ero.

Il pallone impatta con la mia testa o con il mio piede ed io, purtroppo, da Messi che ero torno ad essere il povero Ehizibue: lo sguardo attonito, rammaricato e vagante, quasi a voler chiedere scusa e comprensione per l’errore. Però ancora adesso, dopo tanti anni e tante partite, adesso che la mia carriera (tutta cerebrale) di asso del calcio volge al termine, continuo ad aspettare quell’istante magico, quell’istante sospeso che precede il mio tocco. Forse mi piace quella sensazione di vaga onnipotenza, perché in quel preciso momento ancora nulla è successo e, nel contempo, tutto può ancora accadere; oppure spero che ogni volta quell’istante possa dilatarsi sempre più, fino a diventare eterno ed immutabile, o magari possa sostituirsi alla stessa realtà. Non so.

Fatto sta che dopo un secondo mi ritrovo sempre in porta, da solo; il pallone finito chissà dove. Oppure attorcigliato intorno al mio polpaccio destro. Inutile dire che, nella mia mente, avevo appena fatto una stupenda mezza rovesciata con avvitamento volante! L’espressione però è proprio quella di Kingsley Ehizibue: incredula e rammaricata. Pensate che bello se potessimo inventarci una nuova disciplina sportiva: il calcio mentale. Tutti gli incontri si giocherebbero a parole e a impennate di fantasia: “volo sulla fascia e crosso al centro”. Dall’altra parte: “stoppo di testa e reinvio”. E così via in una partita virtuale sì, ma giocata esattamente con le stesse regole del calcio reale.  Scusate la divagazione, a volte mi astraggo troppo.  Intanto mi sono tornate alla mente le parole di un amico all’indomani di una delle mie innumerevoli partite:

“Gianpaolo hai mai provato con il ping pong? Tra l’altro hai il fisico adatto”. Però … tutto sommato non sarebbe neanche una cattiva idea. Ho anche una schiacciata niente male … nella mia testa!

Gianpaolo D’Elia

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fonte foto: www.itbitalia.it


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