Che fu Monsignor Domenico Amoroso, (nel ’92 vescovo di Trapani), a inviare al Viminale le lettere fattegli arrivare da familiari di mafiosi detenuti al carcere duro i quali protestavano per il regime di 41 bis e chiedevano un’intercessione della Chiesa per far sapere allo Stato che le stragi sarebbero cessate se fosse stato revocato il regime di carcere duro, è quanto si sostiene in un articolo di Alessandra Ziniti pubblicato sulla edizione online di Palermo de “La Repubblica”.
Il testimone eccellente che avrebbe potuto forse raccontare un pezzo di verità nella complessa ricostruzione storica della trattativa tra Stato e Cosa nostra nella stagione delle stragi non c’è più, essendo venuto a mancare per malattia nel 1997, nel ma un suo appunto riservato inviato in quei mesi caldi al ministero dell’Interno si va ad incastrare perfettamente in quel puzzle della memoria ritrovata da molti politici ed esponenti delle istituzioni che nel ’92 ricoprivano ruoli di vertice.
La vicenda tornerà di attualità già nella prossima udienza del processo Mori. Infatti sarebbe stato Totò Riina, che in quel periodo trascorreva la latitanza nel Trapanese, a sollecitare questa “trattativa” della quale sarebbero stati informati i ministri di Grazia e giustizia Conso e quello dell’Interno Mancino.
Nessuno dei due, però, ha mai raccontato di queste lettere ai pubblici ministeri che si occuparono della trattativa.
In particolare non lo disse Conso al pubblico ministero di Firenze Gabriele Chelazzi a cui invece ne avrebbe parlato il comandante dei Ros Mario Mori..
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COMMENTI (1)
Inviato il 02 marzo a 18:34
MONS. DOMENICO AMOROSO EX VESCOVO DI TRAPANI CORRETTO E MAI DEL COMPROMESSO Nessuna trattazione nel ’92 a favore dei mafiosi del 41 bis Non è altro che strumentale e tendenzioso l’articolo apparso il 4 febbraio su Repubblica, nella pagina di Palermo, dal titolo: «Mafia, ex vescovo di Trapani trattava per fare togliere il carcere duro ai boss», sottotitolo: «Monsignor Domenico Amoroso, nel '92 vescovo di Trapani, inviò al Viminale le lettere fattegli arrivare da familiari di mafiosi detenuti con il carcere duro che protestavano per il regime di 41 bis» di Alessandra Ziniti. La notizia non è nuova, ma si vuole ribadire, quasi a forzare e a dare consistenza al fatto. Si vuol fare apparire, infatti, come un vescovo colluso con la mafia, addirittura che voleva trattare con un “pezzo” di Stato per far eliminare il carcere duro ai mafiosi rinchiusi nella sezione 41 bis. Di fatto: è vero che alcuni familiari di mafiosi detenuti al carcere duro consegnarono a Mons. Amoroso delle lettere, ma il presule li trasferì agli organi competenti, non per trattare con loro ma quasi per denunciare, qualora sotto ci fosse qualcosa, altro che perorare la causa dei mafiosi. Si vorrebbe collegare la presenza di un personaggio “importante”, latitante in quel periodo nel trapanese, con il vescovo, ma questa è insinuazione gratuita. Nell’articolo si dice che né il ministro di Grazia e Giustizia Conso, né quello dell'Interno Mancino hanno mai parlato delle lettere ai pm. Per forza, se esse sono irrilevanti dal punto di vista giuridico e riguardo all’appoggio alla richiesta ricevuta! Si dice ancora nell’articolo, ma con ironia, che «il protagonista di questa storia, Monsignor Amoroso, purtroppo non potrà mai chiarire i termini della vicenda». Cosa doveva chiarire il vescovo Amoroso? Si può accusare d’altro ma mai di questo tipo d’intrigo. Tuttora la gente, fedeli e “laici”, lo ricorda in diocesi come un vescovo esemplare, corretto e con le idee chiare circa ciò che appartiene a Cesare e ciò che riguarda Dio. Diceva spesso, a chi gli faceva notare, specialmente in occasione dei funerali per i morti ammazzati in odore di mafia nei primi anni ‘90, perché non facesse riferimento alla “mafia”: «perché più si parla di mafia – rispondeva - più si dà a essa potere». E lui fu così irreprensibile in tutto il suo operato episcopale che rifiutò qualsiasi tentativo fatto da politici e facoltosi, pur di non trovarsi, un domani, colluso con un sistema malavitoso e preferì rimetterci di persona pur di non assoggettarsi a dei sistemi che potessero vederlo incastrato in affari non evangelicamente corretti. «Simultaneamente - come ricorda qualcuno - invitava tutta la comunità a contrastare la mafia con i fatti e non con le manifestazioni». Erice 11/02/2011 SALVATORE AGUECI pubblicista