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Traviata alla Scala

Creato il 08 dicembre 2013 da Gianguido Mussomeli @mozart200657

traviata

Come degna conclusione di un bicentenario verdiano a tratti imbarazzante per il livello davvero infimo delle proposte, la Traviata inaugurale della Scala è servita a sottolineare una volta di più, se ce ne fosse stato bisogno, la crisi profonda di idee e capacità gestionale in cui si dibattono i teatri lirici. Per l’ ultima apertura della sua gestione, il sovrintendente Lissner ha puntato su un altro nome del cosiddetto Regietheater, il russo Dmitri Tcherniakov, che negli ultimi anni si è fatto un nome per il tono audace e provocatorio dei suoi allestimenti. Ma cosa abbiamo visto di innovativo o interessante in questa produzione? Provo a descrivere quello a cui ho assistito durante la diretta televisiva.

Dopo il consueto Preludio a scena aperta, ormai obbligatorio come l’ IVA o la Mehrwersteuer, abbiamo visto un primo atto tutto sommato abbastanza normale, a parte un paio di coristi che si dimenavano come se stessero ballando musica house e la presenza muta, durante la grande aria, di una Annina abbigliata come Wanna Marchi. Nella prima scena del secondo atto, invece, abbiamo avuto la prima grande trovata registica del gggenio. Pensando che Traviata sia una cosa somigliante a Masterchef o alla Prova del Cuoco, la messinscena ci mostra Alfredo che entra in casa con la spesa e si mette a impastare una pizza. Qui, per essere coerenti, si dovevano allora cambiare le parole del testo, più o meno come segue:

Dei miei bollenti forni il giovanil ardore
ella temprò col placido sorriso al pomodor, pomodooor!
Dal di che disse pizzza io voglio solo con te mangiarrrrrr…
dell’ universo immemoreee… io viiiiivo io vivo quasi io vivo quasi al Bar!!!”

E comunque scusatemi, ma se Alfredo cucina in scena allora, in nome dell’ aderenza al reale, al naso degli spettatori (e possibilmente anche a quello dei telespettatori) devono arrivare gli aromi delle pietanzine…
Io, come dicono a Roma, guardando questo pezzo di commedia dell’ arte pensavo tra me e me: “Quasi quasi a ‘sto russo je darebbe ‘na pizza…”.

Il punto è che il Regietheater è ormai diventato, per molti aspetti, una perversa degenerazione del marinismo.

È del regista il fin la meraviglia,

parlo dell’ eccellente e non del goffo,

chi non sa far stupir, vada alla striglia!

(cit. da La Murtoleide: Fischiate del cav. Marino, riadattata per l’ occasione).

Ma ormai nelle testoline dei dirigenti teatrali e di certi critici e spettatori vige il concetto che siccome il pubblico è conservatore e codino, più un regista viene contestato più è “moderno” e gggeniale.
Questa sarà la morte del teatro d’ opera, non certo la mancanza di pubblico ma la sua disaffezione nei confronti di spettacoli fatti appositamente per non coinvolgerlo.

Andiamo avanti con la descrizione. Nel prosieguo della scena Violetta, abbigliata in uno stile a metà tra la Krankenschwester e la cameriera di un Biergarten, sorseggia con nonchalance un tè mentre discute con un Germont padre impettito e abbigliato col tipico cappottone da funzionario del KGB o della Stasi.

Quasi nulla da segnalare nei due quadri successivi, tranne il bodyguard seminudo nella festa da Flora e Violetta che si attacca alla dive bouteille di rabelaisiana memoria durante il preludio al III atto. Anche qui, una modifica al testo sarebbe stata opportuna, il Dottor Grenvil avrebbe dovuto dire: “La cirrosi non le accorda che poche ore”.  Ma poi, io sinceramente non ho capito di cosa moriva, questa Violetta. Non di tisi, visto il continuo correre avanti e indietro e l’ iperattività motoria. Forse era pazza, drogata o ubriaca?  Ci sarebbero diverse altre cose da censurare, tipo la recitazione isterica e sempre sopra le righe di tutto il cast, i cachinni e le risatine gratuite e di dubbio gusto durante le scene di festa, la continua e fastidiosa presenza dei personaggi di fianco a fare le controscene senza alcun rapporto con l’ azione e la banalità della concezione scenica di base, ma preferisco fermarmi qui perchè un allestimento brutto, puerile, banale e stupido come questo non merita che se ne parli ulteriormente. Non era uno spettacolo minimalista (il minimalismo non è un disvalore in sé, comunque. Peter Brook in questo campo ha fatto cose stupende). E non era neppure questione di bellezza o bruttezza dell’ impianto scenico: una scenografia bellissima può contenere una regia orrenda. E viceversa. Alla Scala, per fortuna, si è optato per la massima coerenza: orrenda regia in orrenda scenografia. Per non parlare dei costumi e delle parrucche, spesso ridicole. In sintesi, una messinscena mediocremente concepita e altrettanto mediocremente tradotta in pratica, da parte di un regista che con questa concezione moderna sì, ma anche non troppo, basata su un insulso politically correct ha finito per scontentare sia i tradizionalisti che i cultori degli allestimenti d’ avanguardia. Io comunque non avrei fischiato, perchè si sa benissimo che per Tcherniakov e tutti quelli come lui, i fischi sono una sorta di decorazione sul campo di battaglia e servono per guadagnare qualche titolo di giornale in più. Come ripeto, questo non era uno spettacolo innovativo ma solo una cosa brutta, noiosa e mediocre, basata unicamente su trovatine da avanspettacolo banali e risapute. Una brutta operetta, come qualcuno ha detto in rete.

Di livello assai scadente anche la parte musicale, a partire dalla protagonista che era il soprano tedesco Diana Damrau. Veniamo a esaminare alcuni dettagli della sua prestazione. Nel primo atto, la Damrau esibisce una voce spaccata in tre tronconi, che sotto sforzo diviene spesso dura e stridula nella seconda ottava. La linea vocale è sempre approssimativa, per metà parla e per metà emette aria, stona e prende tutte le note sopra il FA4 con la spinta da sotto, come la Gruberova anziana, interpola continue risatine isteriche da alcolizzata all’ ultimo stadio, concludendo l’ aria con un MIb acuto in cui la stecca è stata evitata proprio per un pelo.

Prima scena del II Atto forse un filo meglio, ma proprio un filo, anche se,  tutto sommato, a guardare e ascoltare questa Violetta, il pensiero di mollare Alfredo per far piacere al rompiscatole paterno genitor  sembrava non importarle granchè, ammesso che capisse davvero quello che stava cantando. Clamorosa la svista esecutiva durante il secondo quadro, nel quale la Damrau ha mancato la sua entrata, costringendo l’ orchestra a suonare da sola per una ventina di battute almeno. Il fatto che nessuno tra il pubblico in sala e nei siti dei grandi giornali abbia notato un simile errore, degno di una filodrammatica parrocchiale, la dice lunga anche sulla qualità e preparazione degli spettatori e dell’ informazione culturale italiana. Io non so cosa succeda ultimamente dietro le quinte dei palcoscenici operistici italiani. Però so per esperienza personale che una volta nei teatri seri c’ era l’ usanza di fare in modo che i cantanti entrassero in scena quando devono cantare, e mi sembrava una buona usanza…

La cantante di Günzburg passa completamente inosservata durante il finale II, cantato senza nerbo e senza voce, oltretutto ingoffita e mortificata da un costume ridicolo e da una parrucca che la rendeva simile a Dustin Hoffmann nei panni di Tootsie oppure a Michel Serrault in La cage aux folles, quando il personaggio di Albin impersona la cantante di night club Zazà nel locale del suo compagno. Andrebbe ricordato al signor Tcherniakov, ammesso che gliene importi qualcosa, che il vero regista sa valorizzare la presenza scenica dei suoi attori e non li ridicolizza o imbruttisce.

Nel III atto, le Violette formato Koloratur puntualmente e regolarmente annegano e la Damrau non fa eccezione, esibendo un canto vocalmente schizofrenico, con la voce che in diversi passaggi si spacca e la costringe in più punti ad accennare e fare acuti in growl. La lettura della lettera è recitata con un tono da filodrammatica di quartiere, evocante Paola Borboni o Emma Gramatica. La prima ottava suonava vuota e allargata artificiosamente, in una spasmodica ricerca di risonanza. Per quanto riguarda il fraseggio e l’ interpretazione, di Alfredo (che il geniale regista faceva entrare in scena portando con sè una scatola di cioccolatini e “quelmazzolindifioricheviendallamontagna ebadabenchenonsibagna”), stando a ciò che si è visto e ascoltato, non le fregava nulla. Dal tono isterico e sempre sopra le righe della recitazione, a tratti sembrava addirittura che lo volesse prendere a pugni, tanta era l’ aggressività immotivata e senza commozione. Per finire, un’ ultima osservazione.  Oggi un certo tipo di giornalismo fa dei grandi blablablá sul fatto che i cantanti odierni sono belli e fascinosi, mica come quei ciccioni di una volta. Ma secondo voi un donnone cosí alto e in carne come la Damrau era credibile nei panni di una malata di tisi?

Per quanto riguarda Piotr Beczala, cantante che di solito stimo e dal quale ho ascoltato cose pregevoli in diverse recite a Zürich e Berlino, ho trovato la sua prova molto deludente. Da qualche tempo, la voce del tenore polacco suona usurata e in disordine oltre che affaticata. Nel primo atto, ho percepito diverse imprecisioni nelle fioriture del brindisi e del duetto, nel seguito il canto di Beczala era spesso forzato e appannato nelle note di passaggio. Ah, prima che me ne dimentichi: chi è stato il genio che gli ha suggerito quell’ orrenda cadenza prima del da capo della cabaletta, musicalmente improbabile e realizzata anche peggio?

Degno padre di tale Alfredo era il baritono serbo Zeljko Lucic, che ha esibito un vocione mugghiante incastrato fra naso e gola, in una sorta di borbottio indeterminato nel quale i concetti di fraseggio e dinamica erano del tutto assenti. Non aggiungo altro, perchè un cantante del genere non merita neppure una stroncatura dettagliata.

La direzione di Daniele Gatti, dopo una discreta esecuzione del Preludio,  ha messo il sigillo definitivo sulla mediocrità di questa produzione con una condotta orchestrale statica, pesante e macignosa, un suono annegato perennemente in una sorta di melassa vischiosa e lutulenta e un fraseggio strumentale perennemente oscillante tra il catatonico e lo schizofrenico. Nessuna concezione interpretativa e un rapporto tra buca e palcoscenico spesso incerto. Vedasi il caso della grande scena di Germont padre, con l’ Andante diretto a fisarmonica, in un continuo alternarsi di rallentandi e accelerandi e la cabaletta resa con un tono pimpante e saltellante che ridicolizzava una pagina già di suo non eccelsa musicalmente. Sinceramente parlando, durante tutta la serata ho rimpianto la musicalità e il senso del teatro di bacchette come Giuseppe Patanè e Angelo Campori. Una direzione piatta, fracassona, noiosa e mediocre, in perfetta sintonia con tutti gli altri aspetti dello spettacolo.

Accoglienze finali come da copione predisposto in partenza. Dopo unanimi consensi alle uscite collettive, esiti contrastanti alle chiamate singole. Daniele Gatti e il gggenio buatissimi, consensi abbastanza chiari per la Damrau, un misto di applausi e fischi per tutto il resto, il Masterchef, il funzionario della Stasi, la Vanna Marchi e gli Arcoristi Anonimi. Un esito sicuramente auspicato dalla direzione artistica e da certa stampa, che adesso potrà sfogarsi dando fondo a tutto il consueto repertorio di filippiche e piagnistei sul pubblico conservatore, passatista, nemico della Kultura e  del progresso, incapace riconoscere il talento dei gggeni. Un film già visto decine di volte, ma che funziona sempre.



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