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Ho una grande nostalgia di Michael Cimino e di film come "L'anno del dragone". Stanley White è l'indice di un mondo narrativo che forse non esiste più, di un modo di concepire le relazioni umane, l'etica e il "mestiere" che appartiene a un'altra epoca: la sua sfida contro la mafia cinese di Chinatown si trasforma in ossessione cieca ed esclusiva, che fa perdere al protagonista ogni cosa, compresi gli affetti che non è mai stato in grado di apprezzare.
In questo senso mi piacerebbe vedere "L'anno del dragone" accanto a "Zero Dark Thirty" per una mia passione intorno agli "eroi" solitari, quelli dove ogni azione sembra perdere qualsiasi ipotesi attiva, per farsi necessariamente deponente: anche Maya nel film della Bigelow non porta avanti un'idea, ma è come mossa, infiammata, trasportata da quella stessa idea fissa. Non è lei a dominare la sua fame di cattura, avviene esattamente il contrario: Maya soccombe al cospetto delle sue pulsioni. Obiettivi impossibili da arginare finché non sono compiuti, come dei virus che accendono la mente e impediscono qualsiasi altro pensiero che non sia la cattura di Osama Bin Laden. Si arriva al dato di fatto, problematico quanto volete, che la vita privata non esista più: non sappiamo nulla di Maya al di fuori del suo lavoro, perché probabilmente non c'è nulla da sapere.
Sono film, questi, che inscenano i frutti di un'ossessione logorante, che è anche, e soprattutto, un'impossibilità di scelta. Allarghiamo il campo al John Wayne di "Sentieri selvaggi": la furia di Ethan contro gli indiani, il suo sguardo di fuoco diretto verso la distruzione non solo del "nemico", ma della sua stessa persona.
Tutti e tre i film, con le dovute differenze, conservano la straordinaria intuizione di trasformare l'eroismo in patologia, l'avventuriero in nuovo malato della società, la caccia in febbre cieca e forsennata. D'altronde quest'eroe perverso non rimane in tutte e tre le opere innegabilmente solo, quasi alla stregua di un reietto, di un esule destinato per sempre allo statuto di borderline? Maya, Ethan e Stanley sono come micce accese che sembrano continuamente sul punto di esplodere: la loro ossessione li consuma fino a svuotarli e, una volta venuta a mancare, le rispettive vite si scaricano, privandoli dell'enfasi febbrile, della grandiosità, della gloria e del dolore dilaniante della malattia. La porta della comunità si chiude alle sue spalle, mentre Ethan cammina solitario verso la prateria. Maya, seduta da sola a bordo di un aereo, comprende che il senso della sua vita - ovvero il proprio nemico - è svanito come un fantasma.
"L'anno del dragone", "Zero Dark Thirty" e "Sentieri selvaggi" sono, con le dovute differenze, tre western (il primo squisitamente metropolitano, il secondo figlio delle strategie del terrore in tempi di guerra, il terzo crepuscolare e definitivo). Se "L'anno del dragone" devia verso le sparatorie rocambolesche da saloon (che farebbero invidia a qualsiasi action-movie di mezza tacca dei giorni nostri), "Zero Dark Thirty" commistiona linguaggi cinematografici e punti di vista differenti, sospettando della verità di ogni immagine. L'inquadratura fordiana, infine, restituisce sempre un grandioso senso di apertura all'orizzonte: Ethan può incamminarsi verso il futuro (che è in realtà la dimensione mitica del passato) una volta liberatosi dalla sua malattia mortale. Dov'è diretto? Ovviamente al western classico, al suo mondo, alla sua epopea che è ormai fuori tempo e non esiste più. Anche Maya è destinata a sparire, così come Stanley: il mondo li ha dimenticati perché anche loro, per troppo tempo, hanno dimenticato il mondo. Ciò che fa soffrire è l'indifferenza di questa dimenticanza, l'oblio cui sono destinati i singoli di fronte agli eventi.
Tutti e tre i film presentano una dimensione autentica del dolore e della sofferenza, oltre che dei veri e propri "duelli finali" come da migliore tradizione western. Ma dal duello non si esce né sconfitti né vittoriosi, anzi, si depone la spada e si avanza con un vuoto incolmabile, con un senso di mancanza e di assenza che nessuno potrà mai estirpare. Cos'è questo vuoto? E' il torpore, il piattume, la monotonia che segue la morte del proprio nemico, che svuota e che guarisce. Ma questa cura manca di vera vita.
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