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Tre storie di una malattia mortale

Creato il 27 novembre 2014 da Samuelesestieri

Tre storie di una malattia mortale
Ho una grande nostalgia di Michael Cimino e di film come "L'anno del dragone". Stanley White è l'indice di un mondo narrativo che forse non esiste più, di un modo di concepire le relazioni umane, l'etica e il "mestiere" che appartiene a un'altra epoca: la sua sfida contro la mafia cinese di Chinatown si trasforma in ossessione cieca ed esclusiva, che fa perdere al protagonista ogni cosa, compresi gli affetti che non è mai stato in grado di apprezzare.
In questo senso mi piacerebbe vedere "L'anno del dragone" accanto a "Zero Dark Thirty" per una mia passione intorno agli "eroi" solitari, quelli dove ogni azione sembra perdere qualsiasi ipotesi attiva, per farsi necessariamente deponente: anche Maya nel film della Bigelow non porta avanti un'idea, ma è come mossa, infiammata, trasportata da quella stessa idea fissa. Non è lei a dominare la sua fame di cattura, avviene esattamente il contrario: Maya soccombe al cospetto delle sue pulsioni. Obiettivi impossibili da arginare finché non sono compiuti, come dei virus che accendono la mente e impediscono qualsiasi altro pensiero che non sia la cattura di Osama Bin Laden. Si arriva al dato di fatto, problematico quanto volete, che la vita privata non esista più: non sappiamo nulla di Maya al di fuori del suo lavoro, perché probabilmente non c'è nulla da sapere.
Sono film, questi, che inscenano i frutti di un'ossessione logorante, che è anche, e soprattutto, un'impossibilità di scelta. Allarghiamo il campo al John Wayne di "Sentieri selvaggi": la furia di Ethan contro gli indiani, il suo sguardo di fuoco diretto verso la distruzione non solo del "nemico", ma della sua stessa persona.
Tre storie di una malattia mortale
Tutti e tre i film, con le dovute differenze, conservano la straordinaria intuizione di trasformare l'eroismo in patologia, l'avventuriero in nuovo malato della società, la caccia in febbre cieca e forsennata. D'altronde quest'eroe perverso non rimane in tutte e tre le opere innegabilmente solo, quasi alla stregua di un reietto, di un esule destinato per sempre allo statuto di borderline? Maya, Ethan e Stanley sono come micce accese che sembrano continuamente sul punto di esplodere: la loro ossessione li consuma fino a svuotarli e, una volta venuta a mancare, le rispettive vite si scaricano, privandoli dell'enfasi febbrile, della grandiosità, della gloria e del dolore dilaniante della malattia. La porta della comunità si chiude alle sue spalle, mentre Ethan cammina solitario verso la prateria. Maya, seduta da sola a bordo di un aereo, comprende che il senso della sua vita - ovvero il proprio nemico - è svanito come un fantasma.
"L'anno del dragone", "Zero Dark Thirty" e "Sentieri selvaggi" sono, con le dovute differenze, tre western (il primo squisitamente metropolitano, il secondo figlio delle strategie del terrore in tempi di guerra, il terzo crepuscolare e definitivo). Se "L'anno del dragone" devia verso le sparatorie rocambolesche da saloon (che farebbero invidia a qualsiasi action-movie di mezza tacca dei giorni nostri), "Zero Dark Thirty" commistiona linguaggi cinematografici e punti di vista differenti, sospettando della verità di ogni immagine. L'inquadratura fordiana, infine, restituisce sempre un grandioso senso di apertura all'orizzonte: Ethan può incamminarsi verso il futuro (che è in realtà la dimensione mitica del passato) una volta liberatosi dalla sua malattia mortale. Dov'è diretto? Ovviamente al western classico, al suo mondo, alla sua epopea che è ormai fuori tempo e non esiste più. Anche Maya è destinata a sparire, così come Stanley: il mondo li ha dimenticati perché anche loro, per troppo tempo, hanno dimenticato il mondo. Ciò che fa soffrire è l'indifferenza di questa dimenticanza, l'oblio cui sono destinati i singoli di fronte agli eventi.
Tre storie di una malattia mortale
Tutti e tre i film presentano una dimensione autentica del dolore e della sofferenza, oltre che dei veri e propri "duelli finali" come da migliore tradizione western. Ma dal duello non si esce né sconfitti né vittoriosi, anzi, si depone la spada e si avanza con un vuoto incolmabile, con un senso di mancanza e di assenza che nessuno potrà mai estirpare. Cos'è questo vuoto? E' il torpore, il piattume, la monotonia che segue la morte del proprio nemico, che svuota e che guarisce. Ma questa cura manca di vera vita.

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