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Tredici ore di parole per nascondere la verità

Creato il 27 giugno 2013 da Giulianoguzzo @GiulianoGuzzo

Wendy Davis

A volte la verità fa paura. Non sempre, naturalmente. Ma a volte è così; e si delinea all’orizzonte come un avversario minaccioso, un incubo da evitare comunque, costi quel che costi. Ne è un esempio l’impresa della senatrice texana Wendy Davis, 50 anni, la quale è giunta a parlare per ben 13 ore consecutive pur di impedire che il Senato si pronunciasse su un disegno di legge che contenava nuove restrizioni sull’aborto e che, se approvato, avrebbe messo il bastone fra le ruote a parecchie strutture abortiste.

Il ragionamento della senatrice Davis è il stato seguente: siccome non posso escludere che il Senato approvi una legge parzialmente antiabortista (non prevedeva l’abolizione tout court dell’aborto), tutto quello che posso fare è sabotarne la votazione. La votazione infatti si è poi tenuta ma, essendo stata effettuata poco dopo la mezzanotte – vale a dire a legislatura scaduta -, è stata subito resa nulla. Una vittoria, anzi un trionfo politico dei democratici, con tanto di festeggiamenti via Twitter di mister Obama. Che bello.

Apparentemente, in effetti, quello di Wendy Davis ha tutto il sapore di un successo: c’era un “pericolo” ed è stato evitato. Però è proprio questo il punto: il “pericolo” – guardandolo dall’ottica dei democratici e, più in generale, degli abortisti – non è stato sconfitto e nemmeno affrontato sul campo, ma solamente evitato. Evitato come si evita un “pericolo” vero, come qualcosa da cui è bene tenersi alla larga. Come un avversario minaccioso – lo dicevamo all’inizio -, come un incubo da evitare a tutti i costi.

Peccato che quel “pericolo” si chiami verità. Peccato cioè che anche nelle prossime legislature ed anche in altre assemblee legislative, popolate da altre pugnaci Wendy Davis, il giorno del “pericolo” si ripresenterà. E con lui l’obbligo, per chi sostiene la liceità dell’aborto, di spiegare le proprie ragioni. Di dire cosa c’è di giusto nell’impedire ad un bambino di nascere perché la sua mamma non si sente pronta ad accoglierlo, e cosa c’è di umano nel far pesare ad una donna le proprie difficoltà fino al punto di toglierle per sempre chi le è più caro.

Fino a quel giorno, fino a quando si continuerà a parlare tanto – fino a 13 ore – non solo senza dire nulla ma addirittura col solo scopo di rimandare un dibattito, siamo autorizzati a credere che il fronte abortista, in effetti, non sia unito che da questo: dalla paura per la verità e, di conseguenza, dall’amore per la menzogna. Del resto, è sempre stato così: già per depenalizzare l’aborto furono dette montagne di falsità, a partire dal numero degli aborti clandestini, regolarmente sovrastimato per plagiare l’opinione pubblica.

Non è un caso che proprio l’America, negli anni, abbia visto entrare nel fronte antiabortista notissimi ex abortisti: dal dottor Bernard Nathanson, grazie al quale in una grande clinica – il Cetnro per la salute sessuale e riproduttiva di New York – e in ambulatori privati furono effettuati 75.000 aborti, a Norma McCorvey, la donna – soprannominata «Jane Roe» –  per il cui aborto, nel 1973, fu emessa la storica sentenza «Roe vs Wade», che spalancò le porte alla pratica abortiva.

Non è un caso – dicevamo – che proprio in America, dove l’aborto legale è arrivato prima che in altri Paesi, molti che ieri lo sostenevano oggi lo avversano, e quelli che oggi lo sostengono, come Wendy Davis e Barack Obama ed altri, gioiscano già per il fatto che certi leggi non vengano discusse, e quindi che dell’aborto, in definitiva, non si parli. Non è un caso perché la verità, lo abbiamo detto, può far paura e pure fare male. Ma anche ripetere ed amare una bugia – per giunta una bugia colossale come quella che nega l’umanità del bimbo non ancora nato – non dev’essere facile.


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