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Trenitudini marittime

Creato il 12 luglio 2012 da Unarosaverde

Venerdi 29 giugno/domenica 1 luglio

Il caldo africano avvolge la terra fin dalle prime ore del mattino e lascia tutti stanchi e irritati. In ufficio stanno facendo le ferie a rotazione, una settimana a testa: io ho scelto, quest’anno, di appiccicare mezze giornate ai fine settimana. Mi dicono che sono sempre in giro: forse è vero, forse è solo un’impressione da sparizioni a metà pomeriggio del venerdì. Lavoro arretrato non ne ho, voglia di estate invece moltissima. Da anni mi sono convinta che le ferie non siano solo un diritto ma anche un dovere: annuso l’aria che tira e compro senza pensarci troppo biglietti del treno. Parto, questa volta vado nelle Marche, a raggiungere mio padre che sta stemperando in acqua il solleone e mi descrive al telefono il sapore del pesce alla griglia. Infilo due cose in una borsa e, a mezzogiorno, spengo il computer e scendo dalla valle in città, fino alla stazione.

Sotto le pensiline il sole scotta ma io sto andando al mare: poco dopo le 18.30 farò il bagno e assaggerò il sale che asciuga tirando la pelle. Me lo immagino già. A gennaio era oceano, Mar Caribe, a giugno sarà Adriatico selvaggio e verde. Il treno è puntuale; un Freccia di aria condizionata e paesaggi che scorrono dal finestrino così rapidi da risultare indifferenti alla vista apre silenzioso le porte e le richiude in atmosfera d’ovatta. Poco più di mezz’ora e sono a Verona. L’afa colpisce non appena scendo a terra: le persone si muovono con lentezza, occupano le panchine, si sbracano per terra, si riparano al coperto nei sotterranei che collegano i binari. I dialoghi sono lenti e faticosi a voce strascicata: si percepiscono più chiare le voci di un gruppo di ragazzi, in congedo dalle caserme, non ancora stremati dalla canicola.

Arriva sferragliando con suprema incurante tranquillità il regionale per Bologna, stracarico al punto che molti rimangono in piedi. I finestrini sono completamente abbassati, l’aria pesante muove a stento le tendine oscuranti che non fanno in tempo a sollevarsi che già i freni stridono nella stazione successiva. Circondata da umanità sudata e valigie, cerco di non assopirmi cullata dal rollio della carrozza e mi chiedo come mai quando le persone viaggiano o hanno espressioni preoccupate o irradiano eccitazione nervosa. Mi fanno compagnia le ultime pagine de Il cuore avventuroso di Jünger : leggo, medito, richiudo, riapro.

A tratti alzo gli occhi: poco lontano, di fronte, è seduta una ragazza bionda, straniera. Appoggiato al suo ventre c’è un cane, di quelli di taglia minuscola, da borsetta. Le sta leccando le braccia: dal polso risale con la lingua piccola fino ai gomiti, su, lungo gli avambracci. Poi appoggia il muso alle zampe, poi ricomincia di nuovo, alla ricerca del sale. Lo lascia fare, controlla solo che non le scivoli per terra. Proseguono il loro gioco ipnotico nella quiete afosa e dolciastra del treno che barcolla di fermata in fermata. La stazione di Bologna è in preda ai lavori di sistemazione ma il sotterraneo è freschissimo e ombroso: aspetto l’Intercity diretto fino all’estremo sud della Puglia con la voglia di arrivare che sale pian piano e si trasforma in impazienza.

I giovanissimi militari in permesso affollano ancora il mio stesso treno: vestiti di jeans corti e tee-shirt, nel corridoio parlano tra loro in un dialetto stretto e incomprensibile.. Alcuni estraggono per confronti le sagome bucherellate delle prove di tiro, forme di uomini crivellati da appendere in camera, a casa o dimenticare dentro un armadio. Altri si riparano dietro grossi occhiali da sole e piccoli auricolari che li isolano dal caos che li circonda. Si accampano dove trovano spazio, appoggiati ai borsoni grigioverde: dentro, negli scompartimenti pieni, l’aria condizionata non riesce a far calare la temperatura e il sole del pomeriggio picchia attraverso i finestrini, sulle braccia magre e abbronzate di una signora non più giovane, che riceve numerose telefonate e chiama tutti “gioia”, con tono di finto mellifluo interesse che non le arriva agli occhi ma rimane aggrappato solo alla voce impostata. Un uomo di fronte a me legge fotocopie, con il simbolo di un’università italiana impresso sulla prima, zeppe di grafici; una donna è immersa in un Einaudi in brossura; una ragazza alla mia destra con i ricci scomposti ha l’aria di una che ha voglia di far conversazione ma nessuno raccoglie l’invito silenzioso del suo sorriso.

Arrivo con qualche minuto di ritardo: il tempo di cambiarmi e sono subito in spiaggia e per due giorni è vacanza con ritmi appresi dall’infanzia e mai dimenticati. Domenica, nel tardo pomeriggio, scura di sole e placida di nervi, mi incammino lenta verso la stazione di Fano pronta a risalire verso le montagne. L’Intercity è in ritardo. Molto ritardo. Troppo ritardo per i 35 minuti di tolleranza a Bologna previsti per il cambio convoglio? Non lo so: ce lo stiamo chiedendo tutti, in questi scompartimenti di nuovo affollati, appena più freschi, profumati di creme solari al cocco. Due ragazze salgono in una delle fermate dei lidi romagnoli con troppe valigie e senza prenotazione: trovano posto sugli sgabelli a scomparsa in corridoio. Magre e curate, sono impeccabili. Una di loro ha un abito a fiori corto, che si sistema spesso in modo che ricaschi con effetto studiato appena sopra il ginocchio, tintinnano i monili alle orecchie e sui polsi; si cambia le infradito indossando un paio di scarpe di corda col tacco, si spalma di crema.. Prosegue una conversazione che si presume iniziata ore prima: parla in “a”.

“Ciaè, nan capisca. Casa ti ha fatta caminciara a pansare cha à ara di chiarara quasta ralaziane?”. “Ciaè, spiagami. Farsa lui ha prablami a camanicare i sai santimanti. Hai mai natata sa la fa con tatti o sala con ta?”. “Ciaè, io pansa cha è maglio par ta se chiarasci e lo lasci” L’altra ribatte e ripete insistendo, nelle due ore successive, sui due stessi concetti opposti, che è stanca e vuol fare chiarezza e che non riesce a non amarlo.

L’intero scompartimento si sorbisce questa infinita insulsa telenovela infarcita di psicologia da riviste rosa e reality show di quart’ordine e senza colpi di scena: un copione scontato di amori stanchi e poco convinti, nel caldo pazzo di giugno e nella stanchezza del rientro dal mare che si allontana con il suo azzurro e il suo profumo sempre di più, mentre corriamo nella pianura emiliana. A Bologna arrivo appena in tempo e risalgo su un freccia freddo e filante, nella quiete della sera: di nuovo i militari di rientro in caserma, di nuovo l’atmosfera protetta dell’alta velocità. In sottofondo discreto questa volta ci sono le radio a basso volume e la cronaca della finale degli europei di calcio ma, dopo il primo goal, ce lo immaginiamo come andrà a finire. Arrivo a destinazione subito dopo il secondo: il tempo di recuperare l’auto e fare pochi chilometri che gli spagnoli infilano il terzo.

Fuori l’aria è immobile e il lago riluce. In silenzio


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