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I figli dell'era silente
Stanno in piedi su piattaforme
Sguardo vuoto e taccuini Siedono nelle ultime file dei confini della città Giacciono nei letti venendo e andando con gran facilità I figli dell'era silente Misurano a passi le loro stanze grandi come una cella Fioriscono per un anno o due poi fanno una guerra Frugano nei loro pensieri da un soldo Poi decidono che non si sarebbe dovuta fare
I figli dell'era silente Ascoltano canzoni di Sam Therapy
e King Dice
I figli dell'era silente Rimorchiano nei bar e piangono una volta sola I figli dell'era silente Fanno l'amore solo una volta ma sognano e sognano Non camminano, scivolano solamente dentro e fuori la vita Non muoiono mai, Un giorno, semplicemente, si addormenteranno.
I muri, dunque.
L'incomunicabilità in quegli anni elesse il muro di Berlino simbolo di una generazione invasa da propositi di rinuncia. Quel panorama fu cantato in mille modi e da angoli di vista i più svariati. Ci fu chi si appoggiò ad una chitarra e ad un'armonica per sottolinearne la dimensione intimista e solitaria, chi lo aggredì con le sonorità elettriche e distorte accentuandone la dimensione disperata metropolitana e suburbana, chi lo interpretò col linguaggio del non senso per metterne meglio a fuoco il carattere non parlato, di rinuncia al dialogo. Nessuno dei suddetti approcci ha nulla a che vedere con Tresspass. Di quell'oceano di silenzi i Genesis non furono cantori, bensì l'anima stessa.
Chiusi nelle nostre stanze simili a celle, respirando il piombo di quegli anni in cui le parole avevano irrimediabilmente lasciato il posto alle pistole e alle bombe, scartavamo gli album colorati di Paul Whitehead per tentare una fuga e ritrovare noi stessi fra gli accordi di mellotron, le leggende medievali e le improbabili maschere di Peter Gabriel, dietro a ciascuna delle quali si nascondeva un'allusione, un'allitterazione, un ossimoro oscuro come la realtà in cui eravamo immersi.
Genesis uguale evasione, dunque?
Neanche per sogno. Quanto meno non nell'accezione negativa che di solito attribuiamo al termine.
Il punto è che la realtà dei giovani di quegli anni era proprio l'evasione stessa. Evasione dal bianco e nero delle TV che guardavano i nostri genitori, evasione dai contesti di gruppo che avevano dominato il decennio precedente e restaurazione di una dimensione individuale e romantica, da vivere tra quattro mura, possibilmente dopo le tre dei pomeriggi autunnali, quell'orario - come diceva Sartre - in cui è troppo presto per fare qualcosa e troppo tardi per farne altre.
Trespass arrivò nelle case di alcuni nel 1970, affascinati più dalla straordinaria copertina che si apriva a libro che dalla fama di un gruppo che due anni prima aveva esordito con un album insignificante, un album che vendette pochissime copie e fu temporaneamente relegato all'oblio: From Genesis to Revelation. Aveva la copertina nera a busta e conteneva canzoni piuttosto evanescenti che pagavano dazio alla scena musicale dell'epoca, blues e pop, senza contribuire alla sua evoluzione.
Trespass è una miscela di colori delicati, un quadro astratto con prevalenza di verde e azzurro. Le lunghe parti strumentali (Stagnation) sembrano concepite per un ascolto ad occhi socchiusi e per anime disposte a confrontarsi con l'assenza di forme sicure, alla ricerca di una meta salvifica e senza tempo, dominata dall'immaterialitá ed immersa fino in fondo in un liquido onirico, quasi amniotico.
"E quando (secondo l'ordine in cui si svolgeva quel piccolo corteo, meraviglioso perché vi erano accostati gli aspetti più diversi, tutte le gamme di colore vi comparivano una accanto all'altra, ma che era confuso come una musica in cui non avessi potuto isolare e riconoscere al passaggio le frasi, distinte ma dimenticate subito dopo) vedevo emergere un ovale bianco, degli occhi neri, degli occhi verdi, non sapevo se fossero gli stessi che mi avevano deliziato già un momento prima, non potevo metterli in rapporto con una data fanciulla ch'io avessi separata dalle altre e riconosciuta. E quest'assenza, nella mia visione, del distacco che avrei presto stabilito fra loro, propagava attraverso il gruppo un ondeggiamento armonioso, la traslazione continua di una bellezza fluida, collettiva e mobile".
Proust descriveva così le "fanciulle in fiore" e lo stesso si potrebbe fare per questo album. Trespass ha infatti tutta la freschezza e l'incanto della bellezza adolescenziale, quella in cui il fascino non è legato alle peculiarità individuali ma si sprigiona dai tratti comuni. Così i sei brani di Trespass non brillano ciascuno di luce propria ma affascinano mescolandosi, quasi sovrapponendosi l'uno all'altro fino a formare un corpo unico senza una forma precisa, ingenuo come il disegno colorato e indecifrabile di un bambino. Impossibile stabilire gerarchie di valore tra un pezzo e l'altro: se l'incedere marziale di The Knife dà autonomia al brano rispetto alla "macchia" impressionista complessiva, non per questo lo si può classificare come pezzo di punta (anche se i Genesis lo usarono spesso come brano di chiusura in concerto). Al recensore non interessa in questo contesto scomporre ed analizzare l'album, quanto piuttosto rilevarne le dominanti e dunque sottolineare il complessivo lavoro di tessitura del mellotron e delle tastiere in generale di Tony Banks, l'approccio poetico ed al tempo spesso ingenuo della chitarra di Anthony Phillips, l'imperizia di John Mayhew nell'uso della batteria soprattutto al cospetto del suo imminente successore. L'anima di questo lavoro sta comunque nell'ingenuitá quasi fanciullesca con cui il gruppo sperimenta paesaggi sonori che troveranno maggior definizione più avanti, nella fragilità dell'impalcatura musicale che sembra essere costantemente in procinto di crollare rimanendo invece miracolosamente intatta fino alla fine, nella convinzione nel proprio lavoro che il gruppo fa trasparire da ogni singola nota e passaggio. Questo disco spalancò le porte del sogno e chiuse quelle della realtà. Che piaccia o no, fu come se qualcuno avesse detto: "Ok, ragazzi. Chiudete gli occhi e le bocche. Lo spettacolo sta per iniziare". Ecco perché noi siamo i figli dell'era silenziosa. Basta con l'impegno sociale, con i comizi improvvisati perfino nei bar. I Genesis ci regalarono la meravigliosa opportunità di recuperare la nostra dimensione individuale più profonda, quella che fu per decenni immolata sull'altare della centralità della dimensione collettiva della vita. Da Trespass in avanti imparammo l'ascolto solitario della musica, poiché qualsiasi interferenza avrebbe reso fastidiosa quella musica. Provate ad ascoltare Stagnation o Dusk mentre chiacchierate con qualcuno. La musica vi sembrerà insopportabile, come l'umore di un amante che si sente tradita e rivendica il diritto alla monogamia. Da Trespass in avanti le nostre stanze diventarono celle e la chiave fu buttata via senza che nessuno di noi nei dieci anni successivi avesse voglia di cercarla. Quella musica non ci rese insensibili agli avvenimenti della realtà circostante, cambiò semplicemente la scala delle priorità nel nostro faticoso percorso di autorealizzazione. Ancora oggi, negli occhi degli ultracinquantenni che quarant'anni fa decisero di vivere in cella, puoi intravedere la luce della riflessività, l'abitudine a scavare nel profondo, un pizzico di aristocratico disprezzo verso le cose urlate a squarciagola. Ancora oggi, questi attempati signori dell'era silenziosa hanno la tendenza a parlare di cose importanti, nascondendo talvolta - in omaggio alle bizzarrie linguistiche del vecchio mentore di Cobham - doppi ed oscuri significati dietro frasi apparentemente innocue.
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