C’è ancora un’ora di luce là fuori: tre pini cimati, il palo di un lampione, una vetta innevata. Il resto è nascosto alla vista, tagliato a metà dall’infisso. Sto con un caldo non buono, secco e stagnante di aria poco cambiata. Appoggio le dita sulla tastiera nera di un portatile che non è mai andato, anche quando era nuovo: non ho voluto che me lo cambiassero, per quel che ci devo fare basta e avanza. Lo vedo arrancare sui cerca verticali ma lo aspetto paziente. Al di là dei vetri interni le macchine continuano a picchiare; i colpi arrivano poco smorzati e continui. Gente entra ed esce da questo ufficio ricavato in una zona di passaggio. Alcuni si fermano e polemizzano – questo è il paradiso degli orchi, costretti ad obiettivi contrapposti in eterno conflitto: il tempo passa e le lamentele aumentano ma sono sempre le stesse. La prossima settimana saranno sei anni che le sento qui. Le sentivo anche prima, in luoghi altri ma simili: ho smesso di badarci e le accetto come fossero tappezzeria di una stanza, immutabile agli occhi. Il dio denaro in questi luoghi ha eretto i propri templi: la spirale lavoro –guadagno – lavoro – guadagno qui si avviluppa su filetti senza fine. E meno male che pare che la fine ancora non si veda: fuori c’è gente che è stata sbalzata a terra dai giri della vite e soffre la fame e non cerca nemmeno più di risalirci. Chi è sceso da solo, invece,come da un treno in corsa, forse a quest’ora guarda un panorama simile con in mano una tazza di tè caldo e una fetta di torta appena sfornata prima di tornare ad un’occupazione non tiranna che tiene vivo il cervello e attive le gambe. C’è qualcosa di malsano nell’esistere così per sussistere. Il mio culo ha assunto le dimensioni e la forma di una sedia da ufficio, senza necessità di tolleranze a disegno. La mia anima vaga in percorsi immaginati e illusori lontano da qui. La mia testa ancora si accende se qui ci sono puzzle da comporre di cui non conosco le regole. Sarebbe meglio se diventassi adulta e rassegnata.
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