Sono passati ormai alcuni giorni da quando è avvenuto questo fatto.
Credo sia arrivato il momento buono per raccontarlo. Due volte all'anno, ormai da tre anni, prendo il treno e vado in Romagna a scopare con la mia professionista di fiducia.
È per me diventato un rito, una sorta di benedizione con valenza semestrale rinnovabile solo lì, solo da lei, in quella palazzina anni settanta, da quella biondona non tanto bella ma tanto porca che rimetterebbe al mondo il mio povero zio Carmine. Pace a lui.
Arrivo sempre tutto lavato, profumato, con la gelatina nei capelli, coi peli del pube spuntati e le mutande nuove. Le prime volte partivo eretto e stavo così fino all'arrivo, quello del treno e l'altro. Ma non voglio parlare di come sia salutare andare con una mignotta. Poi, qualcuno mi conosce, e questo qualcuno sa che cerco sempre di scrivere cose che non siano da bollino rosso o banali. Almeno ci provo. Certo, non sarebbe banale raccontare delle strane mosse provate, delle mie sensazioni, degli strani versi di quel demonio, di quella sua fissazione per la pecorina.
Ma lasciamo stare. Bene, principiamo per dire che non sono entrato in quella palazzina nonostante sia montato in treno e sia arrivato fino in Romagna e mi fossi spuntato i peli e tutto. Avevo fissato ma non mi sono presentato, spero non se la sia presa. Non per giustificarmi, ma tra il lavoro ed un esame mostruoso che sto preparando sono un po' stressato e volevo andare a farmi dare una bella benedizione.
Quel che vale la pena raccontare, almeno penso, è ciò che mi è capitato in viaggio, all'andata, seduto sul treno, col quaderno sulle ginocchia e con la penna nella mia mano dalle dita tozze.
Era una giornata piovosa, da queste parti, in inverno, piove sempre. È successo lo scorso mercoledì, dieci giorni oggi, giusto per essere precisi.
Mi siedo, il treno parte.
La mia mente vola in quella stanza dalle pareti spoglie e a quello specchio sul soffitto, con l'immaginazione fermo le immagini della memoria e le arricchisco con immagini di fantasia che vedono me attorcigliato a quel corpo possente ma molto femminile in stravaganti posizioni da far invidia ad un professionista.
Qualcuno mi urta la spalla.
Mi volto, è un uomo anziano e storpio, vestito molto bene, distinto, educato.
Mi chiede scusa e gli domando se sta bene. Ha tra le mani un mazzo di fiori.
Dice di sì, poi mi domanda se può sedersi davanti a me. Dico sì, che non ci sono problemi.
Si siede sputando aria dalla bocca con delicatezza dopo essersi tolto un giubbotto di quelli lunghi che hanno un nome preciso ma che ora mi sfugge. Capelli bianchi bianchi tagliati da poco e messi tutti da una parte, viso grinzoso, dentiera linda, una faccia grande ma non grassa e basette tagliate al filo degli orecchi.
Guardando oltre il vetro, mi dice che ama la pioggia . No è una semplice frase di circostanza e l'apprezzo fortemente. Rispondo che la pioggia ha il suo fascino ma preferisco le giornate di sole. Sorride. Dice che tutti i giovani amano il sole e le belle giornate, che il sole è ciò che più li rappresenta.
Forse è vero anche se per un mio amico non è così, ma non glielo dico e muovo la testa come a dire che forse è vero.
Sono a mio agio.
Dalla tasca del mio giubbotto tolgo il taccuino e la penna. Apro al segno e rileggo le fondamenta per un racconto che oramai non scriverò più perché ci lavoro da tanto e mi è venuto a noia. Succede spesso. Mi porto le mani alle tempie e poi sugli occhi, faccio come per togliermi le cispe, sbuffo.
Forse ho la febbre, ho dolori dappertutto, specie alle giunture delle ossa. Chiudo gli occhi. Apro l'occhio sinistro e vedo l'uomo che ama la pioggia che guarda ancora fuori con sguardo amorevole. Ha gli occhi verdi e profondi, tanto profondi che più li guardo e più vorrei guardarli per vedere fin dove portano.
Direi che sono uno di quegli scrittori fissati coi volti e con gli occhi, spesso ne resto incantato, spesso sono il punto di partenza per uno dei miei racconti.
Sbadiglio, ad alta velocità il panorama scorre, il filo non so di che cosa è una costante al di là della carrozza. Una donna dietro di me parla al telefono quasi bisbigliando per non disturbare noialtri passeggeri silenziosi. L'uomo mi guarda. Lo fisso e lui mi fissa.
Tutto si ferma improvvisamente, afferro la penna senza intenzione, sprofondo in quel verde segnato da un vissuto da raccontare, il mio corpo pare smaterializzarsi e perdo coscienza di tutto, anche del tempo, anche del rumore del treno che scorre sulle rotaie sotto ai miei piedi.
- Correvo come un pazzo, i forasacchi avevano riempito i miei calzini e il terreno che calpestavo aveva perso ogni tonalità di colore, tanto andavo forte.
Eccola la storia, eccoli i momenti di paura, ecco il potere fuori da ogni controllo.
Le lacrime tagliavano il mio viso da bambino, l'attrito con l'aria le scaraventava a terra e mi sembrava di percepirne il rumore quando si rompevano dietro di me. La mamma mi diceva di correre, tra le sue urla strozzate dal terrore era tangibile la paura per il mio destino incerto, il mio cane abbaiava e poi il rumore di uno sparo invase l'aria ed andò ad infilarsi negli angoli più nascosti di una campagna inerme, basita, annichilita dalla follia di uomini incapaci di ragionare o provare pena per ciò che andavano compiendo.
Poi, al processo, diranno che era solo il loro lavoro.
Il cane smise di abbaiare. Mi voltai. Due camionette, sei uomini in divisa, e là la mia famiglia che non vedevo ma sapevo che c'era. Corsi ancora. Salii su di un albero. Poi cinque spari, quasi contemporaneamente. Il cuore mi batteva forte perché avevo capito, non era la corsa o altro, avevo capito che erano tutti morti tranne me. Vidi le camionette ripartire, uno degli uomini in divisa sparò ancora, verso il sole. Scesi dall'albero e corsi, ma non verso casa, verso il fiume.
Erano le sei di sera quando li vedemmo arrivare, mio padre gli andò in contro, mia madre mi disse di smetterla di giocare col cane. Si respirava un'aria densa di paura. Cercavano cibo e mio padre disse di non averne, loro non ci credettero e lo schiaffeggiarono. Cadde a terra. I nostri animali li avevamo nascosti nel bosco poco distante da casa e non li avrebbero trovati neanche con la giusta indicazione. Mio zio iniziò ad urlare per mandare via quei bastardi affamati e la situazione degenerò in un istante. Presero mia madre colla forza, sgambettava e le caddero gli zoccoli. Mia sorella piangeva, mia nonna stava in silenzio con le mani raccolte dietro. La mamma mi urlò di correre. Mi voltai per un istante e vidi che avevano i fucili puntati addosso.
Corsi per un po', un po' parecchio, e arrivai al fiume, lo attraversai e bevvi dell'acqua. Calò la notte. Avevo fame.
Mi rifugiai sotto ad un enorme masso da quale si sprofondava in una buca grossa come un elefante. Passai lì la notte. Il cinguettare degli uccelli mi svegliò. Era l'alba, mi ero addormentato senza accorgermene. Era un sogno? Era davvero successo quel che era successo? No, era realtà, ero desto, e sì, era successo quel che era successo.
Lo zio, durante le cene, dopo aver alzato un po' il gomito, diceva sempre che prima o poi ci avrebbero ammazzati tutti. Mio padre faceva di tutto per tappargli la bocca, ma lui continuava. Lo zio è sempre stato considerato un pazzo, la nonna diceva che aveva letto troppi libri di filosofia e lo avevano stordito più di quanto non lo fosse da piccolo. Con il babbo avevano continui bisticci, lo zio aveva le sue idee e non c'era verso di fargliele cambiare. Probabilmente era il contrario, ma non voglio sta qui a giustificare nessuno dei due. Alla radio, si sentivano sempre gli stessi discorsi, detti sempre dalla stessa voce, e lo zio borbottava in segno di disappunto. Mia sorella aveva solo quattro anni e per quel poco che possono capire i bambini, le sue domande, ora che ci penso, non avevano nulla di stupido.
Io aiutavo mamma in cucina, sbucciavo le patate, apparecchiavo, poi aiutavo mio zio nell'orto, e mia nonna a fare tutto quello che faceva la nonna. Quando ancora avevamo le pecore, prima che mio zio le vendesse pensando che fosse una mossa astuta perché tanto ce le avrebbero prese, le badavo io. Discussero settimane per quelle pecore vendute.
mattina che mi svegliai solo, in quell'umida buca, pensai che forse sarebbe stato meglio morire con tutti. Cosa avrei fatto? Cosa ne sarebbe stato di me? Tornai al fiume, feci il bagno. Avevo voglia di tornare a casa che distava non meno di due ore di corsa, ma preferii non farlo.
Sentii delle ragazze ridere. Mi rivestii in fretta e quatto quatto andai verso quelle risa. Mi videro. Mi chiamarono. Andai loro in contro. Erano sorelle, quasi donne, restai incantato dai loro capezzoli inturgiditi sotto quelle loro fini camicette bianche. Mi domandarono il mio nome ma non risposi. Mi portarono a casa loro. Arrivati in quella casa (molto simile alla mia), dissero di avermi trovato al fiume, impaurito. Avevano le pecore e le riconobbi, erano le nostre vecchie pecore. Mi fecero mangiare. Mai desiderato così tanto un piatto di minestra. Stavo in silenzio. Mi chiesero se ero muto o sordo ma scossi la testa. Il padre delle ragazze si sedette al mio fianco e mi guardò in faccia, poi con la mancina mi prese il mento e lo volse verso di sé. Disse di conoscermi, che il mio volto gli era familiare. Piansi. Singhiozzando dissi di chiamarmi Attilio. Tutti si raccolsero attorno a me e volevano che parlassi e dicessi cosa fosse successo. Gli raccontai della mia famiglia. Dissi che forse sarebbero venuti anche da loro. Il padre ed il fratello maggiore delle ragazze andarono a casa mia in cavallo. Tornarono dopo alcune ore che trascorsi accarezzando le mie pecore, in silenzio. Mi abbracciarono e dissero che si sarebbero occupati di me come se fossi loro figlio. Una delle ragazze, Carla, la più piccola delle due, divenne mia amica.
Nei giorni seguenti curai le pecore, le accudivo come avevo sempre fatto. Un pomeriggio, ero col mio bastone poco distante da casa a vedere se le pecore stavano bene, se brucavano o meno. Vidi arrivare due camionette, quelle stesse camionette con quegli uomini in divisa che fecero quel che fecero alla mia famiglia. Inizia a correre per avvertire tutti, entrai in casa strillando e la madre delle ragazze mi tappò la bocca e mi strinse forte a sé. Mi dimenavo come un pesce e poi mi dette un ceffone in faccia dicendomi di stare calmo. Arrivarono le sorelle e mi dissero che era tutto sotto controllo. Carla mi portò in camera e dalla finestra vidi che suo padre caricava una pecora su una delle camionette.
Per alcuni giorni non capii cosa fosse successo ma non feci domande. Tutte le notti piangevo, avevo gli incubi che venissero a pretendermi, che mi stessero cercando.
Poi, una mattina, capii che barattavamo la loro sopravvivenza con delle bestie.
Il tempo passò. L'inverno seguente mi ammalai, il padre delle ragazze mi portò un' arancia e fu un regalo meraviglioso. La guerra finì, me lo urlarono le sorelle mentre me ne stavo con le mie pecore e pioveva.
Molte volte pensavo al Dio della nonna, prima di andare a letto me ne parlava sempre, tutt'ora non capisco dove se ne fosse andato in quegli anni.
Diventai grande.
Carla andò a studiare in città, uno dei suoi zii morì per colpa di uno scalcio di cavallo dritto sullo sterno. Io continuai a badare alle mie pecore, a tosarle con l'arrivo dell'estate. Carla si sposò, sua sorella si fece suora, i suoi genitori divennero vecchi e stanchi.
Prima che morisse, il padre di Carla mi trovò un impiego in città e per molti anni lavorai diligentemente da un notaio sghembo e gentile. Abitavo in un piccolo appartamento in affitto da una donna anziana che immaginavo fosse mia madre. Poi incontrai mia moglie, uno splendido fiore dai capelli biondi. La casa in cui abitavano i miei genitori fu venduta e con i soldi comprai quella in cui stavo in affitto, pensò a tutto il notaio per cui lavoravo. Restai sposato per soli pochi anni, mia moglie morì quando nacque il nostro primo figlio. Ogni notte mi rintronano in testa quegli spari, mia madre che mi urla di correre, il vento sulla mia faccia.
La storia della storia.
- Mi svegliai di botto.
L'uomo davanti a me fissava ancora la pioggia che non la smetteva di cadere. Sul mio taccuino c'erano appuntate alcune frasi slegate tra sé. Scesi dal treno stordito per quella febbre che mi sentivo addosso e per il sogno fatto. L'uomo mi salutò dicendomi che nel sogno avevo urlato. Lo salutai guardandogli ancora gli occhi. Che sia stata la vera storia di quell'uomo? Triste davvero.
Al bar della stazione presi un caffè macchiato in tazza grande e poi mi avviai verso casa della bionda anche se ero in anticipo di ben un'ora. Pensai che qualcosa per ammazzare il tempo l'avrei fatta, tipo starmene un'ora sotto la pioggia a sentire le gocce ticchettare sul mio ombrello verde, o magari mi sarei scaccolato. Mentre camminavo verso il piacere notai ancora quell'uomo davanti a me, rallentai il passo e lo vidi che suonò il campanello della mia mignotta. Si spiegarono i fiori e l'aspetto elegante.
Restai immobile e girai il culo, tornai alla stazione e presi il primo treno per tornare a casa. Mi feci tutte le fermate ed arrivai nel pomeriggio. Non me la sentii, vuoi per la febbre, vuoi per la storia di quell'uomo, vuoi per quello che ti pare, non me la sentii.
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