Questa conversazione avveniva tra una poetessa che già una volta aveva tentato il suicidio non trovando alcuna fonte di ispirazione nel mondo (e soggiornato in una clinica “moderatamente” vip per depressi), e suo marito che stava diventando uno dei poeti più significativi dell’Inghilterra post bellica.
Vissero insieme alcuni anni, scrissero alcune tra le poesie più importanti degli ultimi cent’anni, cottage, viaggi, letture, due figli. La realizzazione dei sogni intellettuali frammisti a quelli borghesi tra America e Inghilterra all’inizio del boom economico. Poi lui si innamora di un’altra, lei apre il gas e si suicida. Lei diventa un’icona, lui un poeta vero.Altra scena, un decennio prima o poco meno, dall’altra parte del globo.
Una ragazza particolarmente geniale scrive racconti e poesie, è timida, schiva; l’allontanamento dalla famiglia povera per seguire l’università e la carriera letteraria, la perdita di una sorella la gettano in quello che oggi sarebbe un esaurimento nervoso profondo e che allora viene chiamato “schizofrenia” grossolanamente. La medicina le riserva 200 elettroshock e un’operazione di lobotomia per renderla “inefficace”. Gli elettroshock non glieli toglie nessuno (in una clinica agghiacciante e per niente vip), dalla lobotomia viene salvata grazie alla vincita di un Premio Letterario per un vecchio manoscritto mandato prima di essere internata. Vent’anni dopo le diranno in Inghilterra che nemmeno soffriva di schizofrenia. E lei ci scrive un’autobiografia in tre libri che racconta la sua infanzia (il primo), il suo internamento (il secondo), la sua libertà nel mondo della scrittura (il terzo), diventando due volte candidata al Nobel e, se non la prima (c’è pur sempre Katherine Mansfield) almeno la seconda scrittrice neozelandese in quanto a fama e bravura.
Due modi per entrare e uscire da sè.
Il primo (quello di Sylvia Plath) non porta a liberarsi di nulla, se non di sè. La scrittura prosciuga qui, non è un’arte che diventa il viatico per un “fuori” o un “oltre”. Il secondo (quello di Janet Frame) permette di circoscrivere il dolore, per liberarsene. In questo caso la scrittura asciuga ma non prosciuga.A volte non c’è bisogno di nessuno dei due, si sta bene dove si è. A volte indagare su di sè non fa male, è solo una cuoriosità quotidiana che si ha tempo di seguire.
Penso a Cristina Campo che, in merito alle sue poesie, desiderava leggere: “Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno”, che ha avuto una vita discreta, appartata e senza ricerca di alcun clamore. Spesso scrivere non ha un significato o uno scopo liberatorio, non per me almeno. Non mi riesco a maledire, non mi sento dannata, non trovo alcuna necessità nel superare traumi che non ho o nel dolermi a non riuscirci. Ho poche ombre attorno, al limite il mistero è la troppa luce. Negli ultimi vent’anni sono inutilmente entrata e uscita da me a più riprese, con il miserando risultato di dover iniziare sempre da capo, come accade ogni volta che qualcosa di drastico taglia e distacca il passato dal presente; da capo, però, non è come dire da nuovo. Vuol dire fatica e cocci, nessun foglio bianco su cui scrivere novità. Poi, fortunatamente si invecchia, o, almeno, io sono invecchiata – ho smesso di credere di potermi cambiare e ho iniziato a curare ciò che sono. In questo ho incrociato una vita esemplare, la sua che ha cambiato la mia, inutile riscriverlo qui, l’ho già fatto infinite volte, lo ripeterei altrettante. Chi ha avuto il privilegio di conoscerlo, sa cosa intendo. La possibilità di vivere accanto alla creazione continua, alla scrittura (musicale e non), alle idee, allo sguardo trasversale di chi sta fuori dai giochi perchè gioca un gioco ancor più bello da sè: è questa la vita che non spreco. Ed è quella che voglio.Medita l’acqua, dubita fra i vetri…
Ma s’è smarrita in mezzo agli scaffali
Da ieri un’ape. E tra gli asciutti alari
fragile brilla un’azalea da ieri.
Cristina Campo
articolo di Mamma F.
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