La Turchia: cento anni fa era il "grande malato d'Europa", oggi è l'Europa che sembra essere diventata un problema per la Turchia. Per decenni a cavallo del Bosforo si è guardato all'Occidente e l'Unione Europea è stato il traguardo a cui guardavano le classi dirigenti e l'establishment erede del kemalismo che aveva forgiato la nuova Turchia dopo il crollo dell'impero ottomano. Un sogno che per anni ha trovato sostegni anche in Europa, sia nelle classi politiche che tra gli intellettuali e gli osservatori politici. Ora però, questo sogno sembra essere svanito. Questo almeno è quanto sostiene il più grande scrittore turco contemporaneo, il premio Nobel Orhan Pamuk del quale il quotidiano La Repubblica, il 24 dicembre, ha pubblicato un articolo che Marco Ansaldo ha definito il testo forse più politico scritto da Pamuk negli ultimi anni. Un accusa durissima verso l'Europa e la sua politica di integrazione ma anche verso i settori dell'esercito e dei media turchi collusi con i nazionalisti anti-europei.
Il processo di integrazione europea di Ankara è iniziato molti anni fa e molto tempo c'è voluto perché la Turchia ottenesse lo status di Paese candidato. I nogoziati di adesione, apertisi ufficialmente nell'ottobre 2005, cinque anni dopo, svanite le grandi speranze iniziali, sono sostanzialmente al palo. Nel semestre di presidenza belga dell'Ue non si è riusciti ad aprire nemmeno un dossier secondario e uno degli scogli maggiori resta la questione di Cipro. Intanto, lo scorso settembre, la maggioranza dei cittadini turchi ha approvato il referendum che introduce nella Costituzione alcune riforme che vanno nella direzione degli standard richiesti da Bruxelles, mentre il governo islamico-moderato di Recep Tayyip Erdogan continua a indicare l'adesione all'Ue come una delle sue priorità. Nel frattempo, però, la politica estera di Ankara è cambiata: l'arrivo al ministero degli Esteri di Ahmet Davutoglu ha reso concretamente operante la sua dottrina della "profondità strategica".
All'insegna dello slogan "Nessun problema con i nostri vicini", la Turchia degli anni Duemila porta avanti la sua politica estera muovendosi a 360°, decisa a giocare fino in fondo il suo ruolo di potenza regionale proiettata verso l'Asia, verso il Medio Oriente ed il mondo arabo, il Caucaso e la Russia, verso i Balcani e "anche" (non più "solo") verso l'Occidente e l'Unione europea. Contemporaneamente in Europa, tra le classi dirigenti e nell'opinione pubblica, si è allargata la diffidenza verso il grande paese islamico che pretende di trattare alla pari senza piegare il capo di fronte alla "superiorità" occidentale e, con essa, la posizione contraria all'adesione piena all'Ue che ha in Berlino e Parigi la sue capitali. L'analisi che Orhan Pamuk fa degli attuali rapporti tra Turchia e Unione Europea è, dunque, spietata: da una parte c'è un Paese minato dai nazionalisti, la Turchia appunto, dall'altra un continente, l'Europa, che tradisce i suoi valori.
"Né in Europa, né in Turchia - scrive il premio Nobel nell'articolo di Repubblica - c'è una speranza realistica che la Turchia si unisca all'Ue nel prossimo futuro. Ma ammetterlo avrebbe l'effetto devastante di un totale collasso delle relazioni turco-europee; e quindi nessuno trova il coraggio di parlarne in maniera esplicita". Le tensioni tra Turchia e Unione Europea, secondo Pamuk, "vanno ascritte in gran parte all'alleanza di un settore dell'esercito turco e dei maggiori gruppi mediatici con i gruppi politici nazionalisti, e al successo della loro campagna per sabotare i negoziati". Secondo il premio Nobel si tratta degli stessi ambienti all'origine delle persecuzioni contro gli scrittori e gli intellettuali e degli assassinii di sacerdoti e missionari cristiani.
Detto questo, però, Pamuk non risparmia un dura critica anche nei confronti dell'Europa: "Guardando al paesaggio europeo da Istanbul e oltre, si è colpiti innanzi tutto dal modo confuso con cui l'Europa (al pari dell'Unione Europea) affronta i propri problemi interni [...] Man mano che la crisi si estende e di aggrava l'Europa rischia di ripuegarsi su sé stessa [...] ma in questo modo non riuscirà a risolvere il problema [...] L'Europa non può chiudersi indefinitamente ai disoccupati poveri e indifesi, in fuga dai loro Paesi, alla ricerca di un posto dove poter vivere e lavorare [...] E quel che è peggio è che le politiche ostili agli immigrati e i pregiudizi nei loro confronti stanno già distruggendo quei valori fondamentali che hanno fatto dell'Europa quella che era".
Conclude, quindi, Orhan Pamuk: "Si può comprendere l'ansia o addirittura il panico di un'Europa tesa a preservare le sue grandi tradizioni culturali, ad appropriarsi delle ricchezze del mondo non occidentale e a salvaguardare i vantaggi conquistati in tanti secoli di conflitti di classe, di colonialismo e di guerre intestine. Ma se vuole proteggersi, l'Europa non farebbe meglio a rammentarsi quei valori fondamentali che hanno fatto del Vecchio Continente il centro di gravità degli intellettuali del mondo intero?".
E' il caso della domanda che contiene già in sé già la sua risposta, ma una volta tanto non si tratta di un discutibile espediente retorico, quanto dell'amara constatazione della realtà della situazione. Una situazione che, fatte le debite e neccessarie differenze, può valere anche per i Balcani occidentali e per il loro travagliato processo di intergrazione europeo dopo il baratro apertosi negli anni Novanta con la cruenta dissoluzione della Jugoslavia.
Buon 2011 a tutte le persone di buona volontà.